31 gennaio 2012

Quelli che vogliono tagliare le nostre radici

Vuoi vedere che il male principale del nostro tempo è il richiamo alle radici? Lo ripetono da troppo tempo troppi intellettuali: nelle radici vi sarebbe l’odio per ogni diversità, per la mobilità e l’emancipazione. Nelle radici si nasconderebbe il seme del razzismo e dell’antisemitismo verso l’ebreo errante, l’esodo, il mondo migliore. Le radici sarebbero la figurazione arborea dell’identità, l’ombra legnosa della tradizione, la traduzione in natura dell’ideologia nazionalista e reazionaria. A comporre questo tam tam giunge ora un libretto di Maurizio Bettini, Contro le radici (Il Mulino, pagg. 112, euro 10), lanciato con evidenza dalla Repubblica. Per uno scherzo del destino in questi giorni esce un libretto di pari formato ma di opposta tesi di Roger Scruton, Il bisogno di nazione (Le Lettere, pagg. 98, euro 10) con una prefazione di Francesco Perfetti. Scruton sostiene che le democrazie devono la loro esistenza alla «fedeltà nazionale», cioè a quel legame vivo, culturale, storico e naturale, con le proprie radici, il proprio territorio e alla preferenza per il nostrano. Il nazionalismo, a suo parere, è la patologia della fedeltà nazionale o, come preferisco dire, è l’infiammazione dell’idea di nazione: aveva un senso agli albori del Novecento. Gli avversari di Scruton sono le ideologie universaliste, i poteri e le imprese transnazionali, che egli riassume in una sola espressione: oicofobia, ovvero rifiuto delle eredità e della casa. Di oicofobia soffre Contro le radici di Bettini, nel solco de L’invenzione della tradizione di Eric Hobsbawm, storico che si definisce ancora comunista, e dei numerosi scritti contro l’identità (è il titolo di un testo laterziano dell’antropologo Francesco Remotti). Secondo Bettini l’immagine delle radici sostituisce il ragionamento con una visione. La metafora delle radici permette di far passare per ordine naturale la sottomissione a una tradizione e a un’autorità. Senza il richiamo alle radici, nota Bettini, un «tradizionalista» non riuscirebbe a dirci come sia concretamente costituita la tradizione o l’identità di cui parla. Non si comprende perché la tradizione abbia necessità di una metafora e, invece, il progresso, l’uguaglianza o la libertà sarebbero in grado di spiegarsi da sole. Non c’è bisogno d’illusionismo o di metafore suggestive per spiegare la tradizione. Ci sono molte cose vive e concrete - atti, patrimoni, eredità, esperienze, legami, gesti, simboli e opere - che indicano la tradizione e l’identità. Le radici sono un simbolo riassuntivo di quell’universo e il frutto di un’analogia tra l’uomo e la terra che abita, tra la vita umana e la natura. L’albero - la pianta, le radici - è sempre stata la più frequente figurazione dell’umano, da Omero a Virgilio e Dante, da Goethe a Heidegger; Bettini, studioso della classicità, lo sa bene. Anche la cultura deriva da culto e coltivazione. Ma Bettini reputa il richiamo alle radici la pericolosa premessa all’odio per chi non condivide le nostre radici e all’intolleranza verso chi non vi si riconosce. Insomma il nazionalismo (fino al nazismo) è dietro le radici. Ora, che si possano usare le radici anche come corpo contundente per colpire il prossimo, eliminarlo e perseguitarlo, lo conferma anche la storia. Ma la stessa storia insegna che anche nel nome dei diritti umani, dell’uguaglianza, della libertà, della fratellanza, furono violati quegli stessi principi e fu violentata l’umanità. Quante guerre nel nome della pace... Condannare l’amor patrio perché c’è chi fa guerra in suo nome, è come condannare l’amore perché c’è chi compie delitti in suo nome. Le radici possono degenerare in alibi per i violenti ma creano legami - affettivi, comunitari, vitali e culturali - intensi e veri; nessuno può tradurre automaticamente l’amore per le radici in odio verso chi non le condivide. La violenza nasce dal capovolgere le radici in frutti e dal brandirle come rami, violando la loro nascosta profondità. Peraltro nessuno può imporre l’amore delle radici a chi non ne ha, non le sente o non le riconosce. Questa costrizione produce finzione o violenza. Il dramma della nostra epoca è la perdita delle radici e dei legami, lo spaesamento e la solitudine, la vita labile e precaria che si agita insensata. Se diffidate di Heidegger, leggetevi almeno la Simone Weil di L’énracinement: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e misconosciuto dell’anima umana... l’essere umano ha una radice... Chi è sradicato sradica. Chi è radicato non sradica». Viceversa lo sradicamento per la Weil «è la più pericolosa delle malattie delle società umane». Parola di Simone Weil, operaista e rivoluzionaria, ebrea e antifascista. Del resto, l’atto dello sradicare evoca in sé una violenza che invece è assente nel radicarsi. È la differenza radicale tra piantare ed espiantare, tra l’essere e la sua negazione.Aver radici vuol dire non esaurire la propria vita nel presente o nell’egoismo di un’esistenza autarchica; vuol dire venire da lontano, avere un passato e dunque un avvenire, coltivare la vita e non solo consumarla, amare le proprie origini e stabilire consonanze a partire da chi ti è più prossimo. È molto più naturale e umano amare prima chi ti è legato in radice - i tuoi famigliari - piuttosto che amare prima chi è estraneo e lontano. Amare il prossimo si fonda sulla legge della prossimità; amare il prossimo a partire da chi ti è più vicino, stabilendo sugli affetti e i legami un’inevitabile gerarchia d’amore. Non potrò mai amare dello stesso amore mia madre o mio figlio e una persona sconosciuta che vive agli antipodi. Sarebbe falso e bugiardo dire il contrario; sarebbe disumano, anche se passa per umanitario.E poi le radici sono anche le matrici di una civiltà, le fonti della cultura classica, le tradizioni civili, letterarie e religiose di un popolo. Perché dovremmo considerare barbarico amare le nostre radici? Solo la neolingua totalitaria può indurci a considerare a rovescio la vita, gli affetti, la realtà e l’amore. Shakespeare: «Oro? Oro giallo, fiammeggiante, prezioso? No, o dèi, non sono un vostro vano adoratore. Radici, chiedo ai limpidi cieli». Amate le vostre radici.
(di Marcello Veneziani)

30 gennaio 2012

Si può amare quell'uomo?




"Va bene, comandante". Non c’è andato, Schettino. Il comandante Gregorio Maria De Falco, della Capitaneria di Porto di Livorno (lo sentiamo tutti) “ha ragione”: sta dicendo semplicemente quello che si impone alla coscienza come “obbligatorio”. Alla coscienza d’uomo.

Schettino “deve” fare così. E non lo fa. In maniera plateale, vergognosamente evidente al mondo. Con conseguenze terrificanti. Proviamo e riproviamo a trovare giustificazioni. E non le troviamo (anche i più buoni tra noi), se non la più smaccata, umiliante piccolezza dell’uomo, di “quell’uomo”. Che si è permesso di giocare con patrimoni (vite) di altri, distruggendoli. Per disarmante dabbenaggine. E non basta. Neanche quell’ultimo sussulto, Schettino! Quello che ti avrebbe permesso di andare a letto, la notte maledetta, e di dire “Sono comunque un uomo, perché almeno ho percorso quella dannata biscaggina in senso inverso”. Neppure quel gesto riparatore, redentore, forse, in senso inverso al marciume. Uno spettacolo di umiliazione senza appello dell’uomo, di “quell’uomo”.

Per quel marciume emerso platealmente sulle acque terse del Giglio, Schettino è “inescusabile”, come ha dichiarato il procuratore capo di Grosseto Francesco Verusio, incarcerandolo. Ha ragione De Falco. Ha ragione anche Verusio.
Ma il marciume del moralismo che rigurgita in noi e che sale fino in gola per trovare sfogo e darci serenità, alla fine non è da meno: scaricare il nostro fardello su ciò che è palesemente marcio non è meno umiliante. È un rito liberatorio, primitivo e disumano di gente che ansiosamente lapida, per non essere lapidata.
Perché “quell’uomo” è l’uomo. C’è in ciascuno “quell’uomo”, inescusabile e capace di mentire fino all’ultimo, possibile atto di redenzione.
E proprio in “quell’uomo”, di fianco, sotto, prima, dopo, tutt’intorno alla falsità sputata (“va bene Comandante”) c’è una segreta, silenziosa implorazione, che non riesce neanche a prendere forma, tanto è capacità dimenticata o rifuggita: “Perdonatemi”. Perdonami. Tu, a cui ho rovinato l’esistenza: perdonami. Tu, se puoi, perdona un inescusabile.
Si può voler bene a un uomo inescusabile? Si può amare l’uomo? Perché, quando si ama un uomo, lo si ama così com’è. Questo è il dramma eterno: per poter amare “quell’uomo” occorre qualcosa di ultimamente “ingiusto” e contemporaneamente “l’unica giustizia desiderabile”, quella per la quale saremmo salvati, saremmo amati.

Occorre un terremoto, qualcosa che scombussoli e, nello stesso tempo, realizzi la giustizia. Qualcosa di eccezionale, come un uomo che, nonostante la sua inescusabilità, sia capace di desiderare di fare l’unica cosa all’altezza della sua statura: dare la vita per l’altro. E al Giglio si è visto anche quest’uomo. Ma la strada del dono di sé è quella meno percorsa, meno abbracciata. Si capisce: è la meno probabile.
E lapidare “quell’uomo” è sempre un modo astuto e umiliante di evitare la porta stretta. Quanto bisogno abbiamo di incontrare uomini vedendo i quali diventi desiderabile dare la vita per l’altro, per l’uomo marcio che comanda e per il bambino innocente che muore a causa sua!
Per “quell’uomo”. Quanto bisogno abbiamo di poter dire un giorno, con sincerità: “Ho desiderato per tutta la vita poter percorrere quella dannata biscaggina in senso inverso”.

(di Pier Paolo Bellini- tratto da "Il Foglio" del 19/01/2012)