03 novembre 2011

Mancuso, il falso teologo

Il problema più grave che affligge la cultura cattolica in tutto l’Occidente è il disorientamento dottrinale provocato dal poco ascolto che i fedeli prestano al magistero ecclesiastico (quello solenne del Vaticano II e quello ordinario dei pontefici), mentre troppo ascolto viene prestato al confuso vociare dei teologi, quasi tutti legati a interessi ideologici di parte e tutti coinvolti nel conflitto tra progressisti e conservatori, pro e contro la “nuova teologia”.

Questa pretesa “nuova teologia” altro non è, in sostanza, che una riproposizione, da parte dei teologi cattolici, di quelle teorie sulla fede, sulla Trinità e sulla figura di Cristo che erano state elaborate nell’Ottocento dal luterano Hegel e poi nel Novecento dal cattolico Heidegger. Come spiego in un mio trattato che sarà presto in libreria (Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica scienza della fede da un’equivoca filosofia religiosa, Casa Editrice Leonardo da Vinci), la vera teologia è un sapere scientifico che mira alla sempre maggiore comprensione della fede della Chiesa. Come ogni sapere scientifico, la teologia ha le sue regole, e la prima di queste regole è la salvaguardia della materia di studio, che è fede di tutti. Il teologo parte dal presupposto che la fede della Chiesa – che egli condivide con tutti gli altri fedeli – corrisponde esattamente a quello che Dio ha rivelatosi nella storia della salvezza.
Se il teologo non accetta i dogmi della fede cattolica e si adopera piuttosto per ri-formularli, cambiarne il senso o addirittura negarli apertamente, allora egli abusa del suo titolo scientifico, la sua non è vera teologia. Chiunque può liberamente esporre le sue teorie su Dio e sulla religione, ma se uno non assume i dogmi come verità rivelata, non si deve presentare come un teologo ma come un filosofo: non si devono trarre in inganno i fedeli, che dai teologi si aspettano giustamente di essere confermati nella loro fede, non di esserne distolti. Nel mio libro faccio molti esempi di “falsa teologia”, e faccio anche dei nomi, come Teilhard de Chardin, Karl Rahner, Hans Küng e Klaus Hemmerle; alla fine, tra gli italiani, cito un discepolo di Hemmerle, Piero Coda, che si rifà alla filosofia religiosa di Hegel per re-interpretare la dottrina cattolica sulla Trinità e sull’Incarnazione con le categorie concettuali della dialettica idealistica. Il metodo di reinterpretazione del dogma insegnato da Coda è stato ripreso da molti suoi scolari, tra i quali Vito Mancuso, docente di Teologia moderna e contemporanea all’Università San Raffaele di Milano. Mancuso parla e scrive di teologia, e i suoi libri hanno avuto in Italia una vasta e chiaramente interessata eco nei mass media di orientamento laicistico: evidentemente, alla cultura anti-cattolica non può che far piacere che un autore che si proclama cattolico e teologo demolisca uno per uno tutti i dogmi della fede cattolica (era già successo anni or sono con i libri di Hans Küng). In uno dei suoi primi saggi Mancuso pretende di dare un senso al dramma del dolore umano innocente ricorrendo alla categoria dell’assurdo: «La creazione porta con sé la necessità che Dio soffra; di più: che Dio venga sacrificato. Dentro qui, dentro questa rivelazione assurda, sta l’assurdità dei bambini che nascono handicappati. Il rapporto di Dio col mondo fa prendere a Dio la forma dell’agnello, fa sorgere la figura dell’Agnello destinato al sacrificio. Dio, che è amore, scegliendo di porre il mondo e di porlo libero, diventa agnello sacrificale. E’ un’assurdità che l’onnipotenza divina debba soffrire, essere sgozzata, e questo proprio nell’atto che più di ogni altro rivela la sua onnipotenza. Ma questa assurdità è l’unico spazio concettuale per pensare l’assurdità dei bimbi nati malformati» (Vito Mancuso, Il doloro innocente. L’handicap, la natura e Dio, Mondadori, Milano 2002, pp. 156-157). Di fronte al mistero del male, il teologo che all’inizio cercava ostinatamente uno “spazio concettuale” che valga a riportare in un quadro logico di necessità gli eventi della storia, alla fine non trova di meglio che rinunciare a ogni razionalità; il mistero diventa così l’assurdo, e dall’assurdo del dato rivelato si passa a definire come assurdità, come “aporia” e come “contraddizione” tutta la realtà naturale, ragione per cui la metafisica e la logica classica vanno eliminate dalla teologia. Non occorre rimarcare che la grande novità prospettata da questo discorso teologico è di… tornare a Hegel! Quasi due secoli di critica della dialettica hegeliana da parte della teologia cattolica, e anche della stessa filosofia religiosa luterana (si pensi a Kierkegaard), sono tranquillamente ignorati. Qualche anno dopo, nel 2007, Mancuso pubblica L’anima e il suo destino e Rifondazione della fede, che vuole essere una sua personale interpretazione dell’escatologia cattolica, con particolare riguardo per i dogmi del peccato originale e della Redenzione. All’inizio del saggio l’autore dichiara che il suo intento non è di «distruggere la tradizione» dogmatica ma di «rifondarla», e a questo scopo egli propone un compromesso dottrinale che serva a tenere insieme «la bontà della creazione e la necessità della redenzione». Subito dopo, però, non esita ad affermare che il dogma del peccato originale, così come viene presentato dalla dottrina cristiana, va messo da parte, perché è «un’offesa alla creazione, un insulto alla vita, uno sfregio all’innocenza e alla bontà della natura, alla sua origine divina»; peggio ancora, è «un autentico mostro speculativo e spirituale, il cancro che Agostino ha lasciato in eredità all’Occidente». Qui, come altrove e sempre, l’autore presenta il dogma come un’opinione teologica qualsiasi, senza avvertire la necessità di metterlo in rapporto con la dottrina del Magistero e con la Scrittura, ed è questo modo di affrontare gli argomenti della fede cristiana che non consente di considerare Mancuso un teologo (il giudizio, poi, sulla consistenza della sua filosofia religiosa è un discorso a parte). La proposta di Mancuso, impegnato come tanti altri filosofi religiosi a re-interpretare il dogma, è che per “peccato originale” occorre intendere semplicemente «la condizione umana, che vive di una libertà necessitata, imperfetta, corrotta, e che per questo ha bisogno di essere disciplinata, educata, salvata, perché se non viene disciplinata questa nostra libertà può avere un’oscura forza distruttiva e farci precipitare nei vortici del nulla» Mancuso non sembra accorgersi che l’abolizione del dogma del peccato originale, così come egli la propone, è la riproposizione di una vecchia tesi razionalistica, che sul piano teologico è stata già più volte condannata, e sul piano filosofico è stata dimostrata debitrice di una arbitraria scelta naturalistica all’interno del pensiero cristiano (vedi ad esempio Augusto Del Noce). Fatto sta che, in conseguenza di queste premesse, Mancuso arriva alla completa dissoluzione della soteriologia cristiana: negato il peccato originale e la sua azione devastante nella condizione umana, la salvezza della quale parla il Vangelo si risolve in un pagano esercizio di vita morale, senza più alcun bisogno di un soccorso dall’alto, ossia della grazia divina, frutto della Redenzione. In effetti, senza accorgersi che la sua teoria ripropone, senza sostanziali novità speculative, la vecchia eresia pelagiana, Mancuso afferma che la cristiana «salvezza dell’anima» va intesa come una vera e propria “auto-redenzione” da parte dell’uomo “illuminato”: «La salvezza dell’anima – scrive Mancuso - dipende dalla riproduzione a livello interiore della logica ordinatrice che è il principio divino del mondo; [essa] non dipende dall’adesione della mente a un evento storico esteriore, sia esso pure la morte di croce di Cristo, né tanto meno dipende da una misteriosa grazia che discende dal cielo». La risurrezione di Cristo risulterebbe così del tutto superflua: essa, per Mancuso, «non ha alcuna conseguenza soteriologica, né soggettivamente, nel senso che salverebbe chi vi aderisce nella fede visto che la salvezza dipende unicamente dalla vita buona e giusta; né oggettivamente, nel senso che a partire da essa qualcosa nel rapporto tra Dio e il genere umano verrebbe a mutare». Vanificata così la soteriologia, ne consegue la negazione della possibilità di una condanna eterna, e così anche il dogma dell’Inferno viene contraddetto: esso sarebbe «un concetto [... ] teologicamente indegno, logicamente inconsistente, moralmente deprecabile». Si notino i termini: se parlare, a proposito dell’Inferno, di «un concetto logicamente inconsistente, moralmente deprecabile» appartiene al linguaggio della filosofia, di quella filosofia che esprime la sua opinione (legittima, in linea di principio, anche se priva di giustificazione razionale) anche su temi religiosi, parlare di «un concetto teologicamente indegno» rivela invece la pretesa inaccettabile di presentare la sua tesi come “teologica”, ossia come legittima interpretazione della fede della Chiesa, il che è letteralmente una mistificazione. Il motivo conduttore dell’ultimo libro di Mancuso, Io e Dio (Garzanti, Milano 2011) è il sogno di un cristianesimo senza dogmi e di una teologia «liberante, non opprimente», le cui categorie non sono più il divieto, il peccato e la pena, ma la libertà, la responsabilità e la felicità. Così ai fedeli non verrebbe più inculcato il terrore dell’inferno: la teologia diventerebbe una serie di “consigli per gli acquisti” utili a vivere «la vita buona». Per realizzare questo sogno Mancuso arriva a negare addirittura l’idea di un Dio come “persona”: un Dio che comanda, che giudica, che condanna, un Dio cioè che esercita un potere esterno e assoluto. L’episodio biblico del sacrificio di Isacco (Dio ordina ad Abramo di offrigli il figlio come vittima sacrificale; Abramo obbedisce ma Dio all’ultimo lo ferma) è presentato dalla Chiesa come un esempio di fede perfetta, ma Mancuso ne prova disgusto, sia per l’immagine d’un Dio spietato che l’esempio di disumanità di un padre disposto a sacrificare il figlio. Da questa arbitraria interpretazione della Scrittura Mancuso passa poi alla solita deprecazione (già abbondantemente svolta in Italia da Gianni Vattimo) del potere temporale della Chiesa, anzi anche del potere spirituale della Chiesa stessa, che eserciterebbe, in nome di Dio, una ingiusta violenza sulle coscienze. Ecco allora la ripresa dei vecchi temi della morale autonoma (Kant), dell’identificazione della coscienza soggettiva con Dio (Hegel): «Il mio assoluto, il mio Dio, ciò che presiede la mia vita, non è nulla di esterno a me. […] Credendo in Dio, io non credo all’esistenza di un ente separato da qualche parte là in alto; credo piuttosto a una dimensione dell’essere più profonda di ciò che appare in superficie […], capace di contenere la nostra interiorità e di produrre già ora energia vitale più preziosa, perché quando l’attingiamo ne ricaviamo luce, forza, voglia di vivere, desiderio di onestà. Per me affermare l’esistenza di Dio significa credere che questa dimensione, invisibile agli occhi, ma essenziale al cuore, esista, e sia la casa della giustizia, del bene, della bellezza perfetta, della definitiva realtà». Un intellettuale laicista commenta il libro di Mancuso (Gustavo Zagrebelsky, «Mancuso: il primato della coscienza contro la chiesa dell’obbedienza», in la Repubblica, 9 settembre 2011, p. 12) e finge di essere interessato a come possa essere accettato dalla Chiesa: «Le sue tesi si sviluppano dall’interno del messaggio cristiano, della “buona novella”. Vito Mancuso, che tenacemente si professa cattolico, cerca il confronto, un confronto non facile. Lui si considera “dentro”; ma l’ortodossia lo colloca “fuori”. […] La teologia di Mancuso sarebbe una riedizione dell’orgoglio di chi si considera “illuminato” da una grazia particolare che lo solleva dalla bruta materia e lo introduce al mondo dello spirito e alla conoscenza delle verità ultime, nascoste agli uomini semplici. La Chiesa ha sempre combattuto la gnosi come eresia, peccato d’orgoglio luciferino». Poi, con disinvolta ipocrisia, il laicista Zagrebelsky fa l’avvocato difensore: «Nelle pagine di Mancuso non mancano argomenti per replicare. Dappertutto s’insiste sull’intrico di materia e spirito e sulla loro appartenenza a quella realtà (che aspira a diventare) buona, cioè vera, giusta e bella, che chiamiamo creazione o azione che va creando. Se mai, il dubbio che potrebbe porsi è se, in quest’unione, non vi sia una venatura panteista: Dio come natura. Punto, probabilmente, da approfondire». Altro che «venatura»! Quello di Mancuso è genuino panteismo (anche se teoreticamente inconsistente). Ma, mi domando: perché il recensore (o meglio, il propagandista) del libro di Mancuso storce il naso se sente odore di panteismo? Per lui che è agnostico e contrario a qualsiasi dogma religioso, che differenza fa un’eresia cristiana in più o in meno? La teologia di Mancuso consentirebbe di tracciare nuovi e sorprendenti confini, non più basati sull’obbedienza e sulla disciplina. Così, si scoprirebbe forse che molti, che si dicono dentro, sono fuori; e molti, che si dicono fuori, sono dentro. “Dentro” vuol dire: in una comune tensione verso quel logos del mondo che è la giustizia, appannaggio di nessuno e compito dei molti “di onesto sentire”». Insomma, la pseudo-teologia di Mancuso piace ai miscredenti perché porta acqua al mulino della polemica contro la Chiesa e ripropone (proprio come aveva fatto in precedenza Hans Küng con la sua Welthetik) i progetto massonico di una religione universale “laica” senza gerarchia e senza dogmi, quella religione che alla fine del Settecento era stata teorizzata dal massone Gotthold Ephraim Lessing con Nathan der Weise. Ein Dramatisches Gedicht (1779), opera alla quale Mancuso ricorre più volte. E allora si capisce il senso della conclusione cui arriva il commento sulla Stampa: «Nella “vita buona” di Mancuso, il primato è della coscienza; nella “vita buona” della Chiesa il primato è dell’ubbidienza. Libertà contro autorità: una dialettica vecchia come il mondo. Scambiare la libertà di coscienza con la gnosi è un artificio retorico. Vale per persistere nell’accantonare i molti problematici aspetti della vita della Chiesa impostati su dogmi e gerarchia. Non solo: rende difficile il rapporto con i credenti di altre fedi, religiose e non. Riporta in auge il prepotente principio extra Ecclesiam nulla salus».
(di Antonio Livi- tratto dalla "Bussola Quotidiana")

02 novembre 2011

La Chiesa, l'aborto e Ferrara

Lo avevamo già detto la scorsa settimana, ma è giusto ripetersi: bisogna dare merito a Giuliano Ferrara di tenere viva l’attenzione sul dramma dell’aborto con una decisione e una energia sconosciute a gran parte del mondo cattolico. E così facendo mostra anche tutta la menzogna di quella propaganda che vorrebbe ridurre la questione dell’aborto a uno scontro laici contro cattolici. Non è necessario essere cattolici per comprendere tutta la barbarie di questa eliminazione sistematica dei soggetti più deboli e vulnerabili della società. Basta l’uso della ragione.

Se ci ripetiamo è perché negli ultimi giorni Ferrara dalle colonne de Il Foglio è tornato due volte sull’argomento, la seconda delle quali – ieri – rispondendo al nostro editoriale del 21 ottobre firmato da Mario Palmaro. Sabato 22 ottobre, invece, aveva rispettosamente spiegato in prima pagina perché ritiene che la Chiesa sia oggi l’ostacolo più grosso a una vera battaglia culturale contro l’aborto. “La comprensione del peccato” insita “nell’amore”, dice in sostanza il direttore del Foglio, in qualche modo rende molli i cattolici che penserebbero più a “redimere” l’umanità che pecca – puntando su tempi lunghi - che non a intervenire drasticamente per bloccare questa vergogna “nel tempo legislativo e politico”. Poi, a Palmaro che gli ricordava l’errore di considerare come un dato acquisito e indiscutibile la legge 194 (se una cosa è male non può essere ammessa dalla legge), Ferrara risponde che una battaglia legislativa è di retroguardia, che “la sanzione giuridica del reato di aborto non funziona in un mondo relativista”. E quindi lancia la sua proposta: “superare la legge, darla per scontata, e opporre un amore sì, ma un amore paolino, un amore duro, ardente, di fede e di cultura, alla sordità morale che impedisce politiche pubbliche doverose contro l’aborto in ogni sua forma (compresa la manipolazione eugenetica dell’embrione umano)”.

Noi condividiamo appieno la parte fondamentale della proposta, quella dell’«amore paolino», della battaglia culturale per opporci alla sordità morale della nostra società. E non potrebbe essere altrimenti: nel nostro piccolo è quello che La Bussola Quotidiana fa già da quando è nata, meno di 11 mesi fa, non a caso nella ricorrenza dell’8 Dicembre, l’Immacolata Concezione: quale figura umana può più degnamente rappresentare questa battaglia culturale invocata da Ferrara? E l’Immacolata ci ricorda anche che l’opposizione all’aborto non nasce da una convinzione ideologica, ma da un sì alla vita, da un sì alla verità di sé che fa proprie tutte le ragioni e tutte le inquietudini e incertezze degli uomini e delle donne di ogni tempo.

Noi ci sentiamo già appieno in questa battaglia ricordando anche le profetiche parole di Giovanni Paolo II che all’incontro mondiale con le famiglie, a Rio de Janeiro nel 1997, disse chiaramente che la battaglia del Terzo millennio sarebbe stata attorno all’uomo, perché Satana, non potendo colpire Dio direttamente, si accanisce contro il vertice della Creazione, quella creatura fatta a Sua immagine e somiglianza. L’aborto, la sua banalizzazione, il tentativo di diffonderlo in tutto il mondo, addirittura la follia di volerlo inserire tra i diritti umani fondamentali, è il segno più evidente di quanto Giovanni Paolo II avesse ragione.

Quindi, caro Ferrara, su questo noi ci siamo, anche perché ci siamo sempre stati e il curriculum di tante firme de La Bussola Quotidiana non lascia spazio a dubbi. Ma siamo convinti che di questa battaglia culturale faccia anche parte riaffermare la profonda ingiustizia di quella legge che nel nostro paese ha introdotto l’aborto.

Non facciamo oggi una battaglia per cambiare quella legge, né indugiamo su questo, ma solo perché siamo consapevoli che non ci sono le condizioni culturali e politiche per poterlo fare. E su questo siamo perfettamente d’accordo. Ma un conto è dire che allo stato attuale la legge non si può cambiare, che non vale la pena discuterne, un conto è dire che la 194 va bene così. Se il giudizio sull’aborto è così chiaro - “un omicidio seriale” – non può non comprendere anche una valutazione sulle leggi che lo consentono. Come del resto è una proposta giuridica quella di riformare in senso anti-abortista l’articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, un altro cavallo di battaglia di Ferrara.

Ma oltre che sul piano della logica è bene spiegare questo punto anche da un punto di vista storico ecclesiale. In fondo Ferrara ha ragione nel lamentare una certa ritrosia del mondo cattolico a impegnarsi sul tema dell’aborto: del resto la stessa campagna per il referendum del 1981 dovette fare i conti con una latitanza piuttosto diffusa tra i pastori della Chiesa italiana. E tutt’oggi è molto più facile trovare un vescovo che si scaldi e lanci anatemi contro la gestione privata degli acquedotti che non uno che faccia altrettanto contro la piaga dell’aborto.

Difficile però sostenere che il problema stia nella concezione di amore. Esso sta piuttosto nella mancanza di amore: alla vita e alla verità anzitutto. Lo dimostra il fatto che i documenti del Magistero, gli interventi dei Papi, sono sull’aborto molto più duri e netti delle posizioni che poi vengono assunte da singoli vescovi, sacerdoti, laici impegnati nel sociale e nella politica. Non è certo un segreto che i ripetuti interventi di Giovanni Paolo II su questo tema, in Italia e all’estero, fossero sopportati con un certo qual fastidio e per quanto possibile silenziati da molti opinion leader cattolici, laici o ecclesiastici che fossero. Basterebbe confrontare quanto è scritto nella Evangelium Vitae o nella nota del 2002 della Congregazione della Dottrina della Fede sull’impegno in politica, con il contenuto dei giornali cattolici “ufficiali” per rendersi conto che c’è una distanza abissale nel giudizio e nelle conseguenze. E i “princìpi non negoziabili” codificati da Benedetto XVI, che il Papa – e ora anche il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco – pone come fondamento di ogni politica per il bene comune sono visti come pietra d’inciampo da tante sigle e personalità cattoliche. Noi stessi lo abbiamo denunciato più volte da queste colonne: i primi a non credere veramente al valore dei “princìpi non negoziabili” (famiglia, vita, libertà di educazione) sono la gran parte dei vescovi.

Dopo l’approvazione della legge sull’aborto nel 1978 e la sconfitta nel referendum del 1981, in tanti è prevalso il desiderio di evitare l’argomento, considerato troppo lacerante per la società italiana. Si è pensato di contribuire a ricucire le ferite provocate da quell’aspro confronto, tacitando l’argomento: si è cioè anteposta l’opportunità “politica” alla verità e all’amore (sul piano politico era già avvenuto in precedenza se si considera che la legge 194 fu firmata da ministri democristiani di provata fede cattolica). Inoltre, i tanti cattolici che da laici e rimettendoci in proprio – bisogna riconoscerlo – si sono sempre spesi in prima linea sul fronte della vita (Centri di aiuto alla vita, Progetto Gemma, sepoltura dei feti) hanno faticato a trovare simpatia e sostegno in coloro che nella Chiesa contavano. E sulla legge 194 per oltre venti anni è calata una cortina di silenzio.

In altre parole, l’introduzione di questa legge ha avuto anche l’effetto di infiacchire la Chiesa italiana sul piano della battaglia culturale. E l’oblìo in cui è caduta la Legge 194 è una delle cause che ha permesso, in tempi recenti, ad autorevoli esponenti cattolici e pro-life di riparlarne in termini positivi, come se il problema in questi anni fosse stato solo nella mancata applicazione di alcune parti della legge stessa, più favorevoli all’accoglienza della vita. Ripetiamo per evitare fraintendimenti: ben venga tutto quello che si può fare per migliorare la situazione, per ridurre il più possibile gli aborti procurati, anche l’uso di una legge ingiusta come la 194. E sempre tenendo conto che abbiamo a che fare con dei drammi umani. Ma questo non fa diventare buono ciò che è intrinsecamente cattivo. Non possiamo confondere la strategia politica e culturale con il giudizio di valore.

Una vera battaglia culturale, “opporre un amore paolino alla sordità morale che impedisce politiche pubbliche doverose contro l’aborto in ogni sua forma”, implica che tutto sia compreso nella verità, che nulla sia censurato. Su questo noi ci siamo.

(di Riccardo Cascioli- tratto dalla "Bussola Quotidiana")