22 ottobre 2011

Ora basta con l'aborto

E adesso che facciamo? La massima corte di giustizia europea ha stabilito che l’embrione umano, perfino prima di essere compiutamente un embrione fecondato, non può essere manipolato e brevettato da ricercatori e scienziati. E un feto di un certo numero di settimane? Quello sì, quello può essere abortito. Lo dice la nostra cultura giuridica. La situazione morale che ne deriva è incandescente, e pone problemi serissimi a tutti. Il ricercatore è in una situazione etica diversa da quella della donna che ospita un figlio indesiderato. Nel primo caso si tratta di metodologia scientifica, dei rischi di fare tutto quel che è possibile fare in provetta. Nel caso della donna si tratta di una scelta diretta di vita. Sarebbe giusto ormai riconoscere che si tratta di una scelta tra due vite: la sua libertà procreativa cosiddetta, e la vita umana fecondata e in crescita, nutrita e accudita dal suo corpo, destinata ad annientamento. Una sentenza stabilisce che nel primo caso c’è una dignità umana che sarebbe offesa da procedure di selezione e distruzione. Nel caso della donna mille sentenze tutelerebbero, ai sensi delle leggi abortiste, il diritto a fare quanto e più di quello che, in nome della dignità della vita umana, è precluso al ricercatore. Incandescente. Confermiamo un nostro vecchio orientamento. L’aborto è un omicidio, il massimo omicidio possibile perché preclusivo di tutto il futuro della persona. Nello scontro fra assoluti etici che questo comporta, non è possibile riparare a un peccato morale, tra i più antichi e sofferti del mondo, con punizioni e ipotesi di reato penale a carico delle donne che abortiscono e di chi collabora al fatto abortivo. Ma questo dramma deve imporci una conseguente, ferma, severa, responsabile politica antiabortista, a partire dalla guerra culturale contro lo sterminio per selezione e annientamento dei non nati. Oltre un miliardo in trent’anni. E la conta continua. Era il tema della moratoria antiaborto del 2008 e della lista presentata alle recenti elezioni politiche italiane. Ridefinire la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo firmata a San Francisco nel 1948, all’articolo 3. Specificare bene che i confini della vita umana oggi conosciuta, dopo le ricerche e la mappazione del Dna, sono diversi da quelli conosciuti nel 1948. Far discendere da questa ridefinizione le norme giuste per rendere importanti e cogenti i controlli sulle motivazioni dell’aborto, prima dell’operazione distruttiva da scongiurare ai limiti del possibile. Investire soldi pubblici nella promozione sussidiaria e privata di ogni tipo di assistenza antiaborto. Attrezzare cimiteri per i non nati, che devono avere un nome, e finirla con la pratica della loro eliminazione sotto la categoria dei “rifiuti ospedalieri speciali” cosiddetti. Estendere la pratica delle adozioni, la moderna ruota dei conventi. E molto altro. Insomma lottare contro la sordità morale nei confronti dell’aborto e delle pratiche di selezione eugenetica che portano occidente e oriente a fare della libertà della donna, della libertà di nascere come frutto dell’amore, della libertà di esistere anche se non si sia figli maschi, un infernale e nichilistico macello sociale. (di Giuliano Ferrara)

06 ottobre 2011

Amanda Knox, i media e il pregiudizio anti-cattolico


Non poteva mancare. Nell’orgia mediatica che si è consumata intorno al processo per l’uccisione di Meredith Kercher, non poteva mancare qualcuno che tirasse in ballo la Chiesa. “La natura delle accuse contro Amanda Knox erano quasi esclusivamente di natura sessuale. L’Italia cattolica condanna lo stile di vita e un clichè adoperato ad hoc, non il fatto – mai dimostrato – che abbia ucciso”. Così afferma in un’intervista al Corriere della Sera (notare anche il giornalista compiacente) lo scrittore-avvocato americano Scott Turow, che aggiunge: “L’aver dipinto sin dal primo istante la Knox come una giovane americana viziosa, promiscua e drogata, giunta in Italia dalla capitale degli hippy Seattle solo per divertirsi, ha consolidato uno stereotipo con grande presa sulla vostra opinione pubblica". Ecco il problema: Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati condannati in primo grado soltanto perché siamo un paese cattolico, che non ama le ragazze licenziose e che magari fanno uso anche di droga. Cosa che se fosse vera vedremmo Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti – nel processo attualmente in corso – condannati anche per le stragi di Bologna, Ustica e Piazza Fontana. Stando al teorema di Turow perciò, quella folla che, fuori dal Tribunale di Perugia, a sentenza nota ha cominciato a fischiare e urlare “Vergogna, Vergogna!”, era senz’altro un gruppo di esagitati dell’Azione Cattolica e del Movimento Chierichetti. Ma non è solo Turow; il quotidiano inglese The Daily Telegraph è ancora più preciso: il responsabile di questo flop giudiziario è il cattolico pubblico ministero Giuliano Mignini, che a causa della sua fede è anche fissato con il satanismo e le messe nere. Insomma, Mignini avrebbe legato la ricorrenza di Halloween – l’omicidio avvenne l’1 novembre – con presunti riti satanici a base di sesso che avrebbero portato alla morte di Meredith. Ovviamente, questa sarebbe pura fantasia scatenata nella testa del pubblico ministero dal suo essere cattolico. In altre parole, secondo questi illuminati signori del mondo anglosassone, l’Italia è il paese della superstizione e della caccia alle streghe a causa della sua tradizione cattolica. Evidentemente non hanno letto la cronaca dei giornali italiani negli ultimi anni. Parlare di pregiudizio anti-cattolico in questo caso è perfino riduttivo. Sia ben chiaro, noi non abbiamo elementi né a favore della colpevolezza né dell’innocenza, così come la stragrande maggioranza di coloro che – italiani e non – hanno scritto di questo processo. Guardiamo soltanto a ciò che è avvenuto intorno al processo, e non possiamo fare a meno di notare che al pregiudizio anticattolico si sposa anche una punta di razzismo da parte soprattutto dei media e dei politici statunitensi. Per loro Amanda Knox è innocente a prescindere: è americana, non può essere colpevole di alcunché avvenuto in terra straniera. Gli italiani non sono degni di giudicare un cittadino americano, come si osa portare alla sbarra chi è “superiore” per nascita? Non è purtroppo la prima volta che accade: è successo per la strage del Cermis, è successo per la morte dell’agente segreto Nicola Calipari in Iraq. Ma in questi casi, si poteva pensare, il problema era che sul banco degli imputati c’erano dei militari. Nel caso di Perugia però - un fattaccio di cronaca nera senza alcun collegamento, neanche lontano, con la politica - abbiamo visto scendere in campo per fare pressione sulla giuria addirittura il segretario di Stato Hillary Clinton. Un fatto di cronaca nera che diventa affare di stato: unica prova dell’innocenza, la cittadinanza americana. E giù a ricordarci che nel “perfetto” sistema giudiziario americano Amanda Knox sarebbe stata assolta subito perché non ci sono prove sufficienti della sua colpevolezza: «Il nostro sistema giudiziario – dice ancora Turow – parte sempre dal presupposto di innocenza. Sta all’accusa dimostrare la colpevolezza di un imputato, attraverso prove “al di là di ogni ragionevole dubbio”». Che il nostro sistema giudiziario non sia un bell’esempio ne siamo ben coscienti (e lo conferma purtroppo anche il processo di Perugia con due sentenze che danno verdetti opposti), ma che normalmente si condanni sulla base di pregiudizi etnici e senza prove convincenti fa un po’ ridere. Soprattutto se questa lezioncina ci viene dagli Stati Uniti dove, guarda caso, tra gli oltre 400 cittadini italiani detenuti nelle locali carceri, ci sono due casi molto controversi. Anzitutto quello di Carlo Parlanti, accusato nel 2004 e poi condannato nel 2006 per stupro, violenza e sequestro di persona dall’ex compagna. La donna durante il processo ha offerto più versioni discordanti, le indagini non sono mai state fatte e, durante il processo, Parlanti non ha avuto neanche l’ausilio di un interprete. E in pochi giorni, si è trovato la condanna sulle spalle. Il secondo caso è quello di Enrico (Chico) Forti, produttore di filmati per la tv, condannato nel 2000 all’ergastolo in Florida per l’omicidio di un immobiliarista al termine di un processo indiziario da cui non è emersa alcuna prova concreta a suo carico. A generare dubbi sulla sentenza è anche il fatto che Forti era entrato in pesante contrasto con la polizia, in relazione alle nebulose vicende che avevano portato alla morte dello stilista italiano Versace e, successivamente, del suo presunto assassino. Forti, anche in servizi televisivi, definì la polizia “corrotta”, insinuando che essa avrebbe confuso le acque per salvaguardare i veri colpevoli. Da quel momento iniziano i guai e la sentenza lo condanna all’ergastolo “per aver personalmente e/o con altra persona o persone allo Stato ancora ignote, agendo come istigatore e in compartecipazione, ciascuno per la propria condotta partecipata, e/o in esecuzione di un comune progetto delittuoso, provocato, dolosamente e preordinatamene, la morte di Dale Pike”. Accuse vaghe, come quelle della pubblica accusa nella requisitoria finale: “Lo Stato non ha bisogno di provare che Forti è il killer per provare che proprio lui sia stato il colpevole dell’omicidio…”. Questo sarebbe l’esempio di prove “al di là di ogni ragionevole dubbio”, secondo la giustizia americana. O almeno se l’imputato è italiano. Ma il nostro ministro degli Esteri, benché sensibilizzato sul tema, nemmeno si sogna di fare qualche domanda alla signora Clinton.


(di Riccardo Cascioli- tratto da "La Bussola Quotidiana")

04 ottobre 2011

Vendola e i cattolici. Il bastone e la carota

Nello scorso week-end Nichi Vendola, governatore della Regione Puglia e, se la sinistra facesse le primarie, tra i più probabili candidati di quello schieramento alla presidenza del Consiglio, ha partecipato alla convention a Roma dei circoli Nuova Italia che fanno capo al sindaco di Roma Gianni Alemanno. Ero presente, invitato a parlare di politica estera. Ho trovato molto interessanti gli applausi reiterati a Vendola, ogni volta che il politico pugliese si è lanciato in battute contro la «casta» e i «ricchi» da parte di un pubblico di destra che evidentemente condivide il clima di esasperazione che ormai domina nel Paese. Mi ha colpito, però, un passaggio del discorso di Vendola, esplicitamente rivolto ai cattolici e ai vescovi. Vendola, come tutti sanno, è dichiaratamente omosessuale e favorevole al riconoscimento giuridico delle unioni tra persone dello stesso sesso, così com'è favorevole alla sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione per malati che si trovino nella situazione di Eluana Englaro. Orbene, Vendola ha rievocato una grande sconfitta del suo schieramento, il Family Day, chiedendosi retoricamente dove sono oggi quei militanti,quelle associazioni cattoliche e quelle famiglie. Probabilmente, ha detto, stanno maledicendo il governo Berlusconi di cui con quella manifestazione hanno favorito la nascita per avere tagliato i fondi alle loro associazioni e al loro volontariato, nonché - attraverso l'ultima manovra - alle stesse famiglie. «Chiedetevi - ha detto Vendola - che cosa preferiscono davvero oggi quei movimenti e quelle famiglie. Preferiscono ritrovarsi senza fondi e senza aiuti, ma con la magra soddisfazione di sapere che modelli di famiglia e di diritti diversi dal loro in Italia non sono riconosciuti, oppure preferirebbero un altro governo, che da una parte dia spazio ai nuovi diritti ma dall'altra faccia arrivare alle famiglie e al volontariato i fondi di cui hanno bisogno?“. Premesso che «nuovi diritti» è un nome in codice per il riconoscimento delle unioni omosessuali e della possibilità di sospendere l'alimentazione e l'idratazione dei malati alla Eluana, la domanda di Vendola ha una versione bastone e una versione carota.
La versione bastone suona così: cari cattolici, cari vescovi, quando saremo al governo noi state attenti a non opporvi all'eutanasia e al matrimonio omosessuale perché potremmo colpirvi dove fa più male, togliendovi le esenzioni fiscali e strangolando economicamente le vostre associazioni e le vostre scuole. In tanti Paesi il laicismo ha fatto così.
Bisogna riconoscere che - benché la versione bastone in questi casi sia sempre implicitamente sullo sfondo - Vendola per ora ha usato la versione carota, proponendo un baratto. Con un prossimo governo del dopo-Berlusconi, magari proprio un governo Vendola, voi - vescovi e cattolici - impegnatevi a non disturbare il manovratore sul tema «nuovi diritti». In cambio ci dimenticheremo dei proclami bellicosi sull'ICI da far pagare alla Chiesa e daremo anche qualche soldino al volontariato e alle famiglie.
La proposta indecente di Vendola richiede due diverse risposte. La prima richiama ancora una volta alla questione dei principi non negoziabili. Per quanto siamo affezionati al quoziente familiare, la vita e la famiglia vengono prima. Il Papa lo ricorda tutti i giorni, e sarebbe bene che a scanso di equivoci lo ricordassero pubblicamente anche i vescovi italiani direttamente chiamati in causa dal governatore della Puglia. La seconda risposta l'ha data il Papa in Germania. La Chiesa Cattolica protesta contro le ingiustizie di chi le ruba beni materiali legittimamente acquisiti, ma teme di più chi le vuole rubare l'anima. E non accetta baratti che «annacquino» la verità. Nella storia, per quanto malintenzionato e ingiusto fosse chi la spogliava dei beni materiali, queste spoliazioni - ha detto il Papa a Friburgo - «significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità: essa si spogliava, per così dire, della sua ricchezza terrena e tornava ad abbracciare pienamente la sua povertà terrena. Con ciò, la Chiesa condivideva il destino della tribù di Levi che, secondo l’affermazione dell’Antico Testamento, era la sola tribù in Israele che non possedeva un patrimonio terreno, ma, come parte di eredità, aveva preso in sorte esclusivamente Dio stesso, la sua parola e i suoi segni. Con tale tribù, la Chiesa condivideva in quei momenti storici l’esigenza di una povertà che si apriva verso il mondo, per distaccarsi dai suoi legami materiali, e così anche il suo agire missionario tornava ad essere credibile». Il Papa certamente non pensava a Vendola. Ma qui si trovano anche i principi per rispondere alla sua proposta tecnicamente irricevibile. La Chiesa non fa compromessi. Come ha detto ancora il Papa a Erfurt, ai protestanti, «la fede dei cristiani non si basa su una ponderazione dei nostri vantaggi e svantaggi. Una fede autocostruita è priva di valore. La fede non è una cosa che noi escogitiamo o concordiamo. È il fondamento su cui viviamo». Vade retro, Vendola. (di Massimo Introvigne- tratto dalla "Bussola Quotidiana")

E Olmi scambia il cristianesimo per la Caritas



Il cristianesimo ridotto a religione sociale. A mistica della solidarietà e dell’accoglienza. È una tendenza via via crescente in televisione, al cinema, nei giornali. Ne abbiamo avuto un ultimo esempio anche l’altra sera a Che tempo che fa di Fabio Fazio, ospite principale Ermanno Olmi, in passato il cineasta italiano di più elevato spessore religioso. Tocca dire in passato, peraltro con rammarico, dopo aver visto Il villaggio di cartone, presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia e nei cinema da venerdì prossimo. Anche l’altra sera Olmi ha confermato la tesi in odore di eresia della sua pellicola nella quale, alla prima scena, un gigantesco braccio meccanico spoglia una chiesa del suo crocifisso mentre qualcun altro toglie dalle pareti le immagini devozionali. Quell’edificio non è più luogo di culto ma, è la metafora del film, proprio ora che il battistero è diventato un abbeveratoio e le candele servono per riscaldare infreddoliti ospiti, paradossalmente corrisponde meglio alla sua natura. Tra i banchi, vicino all’altare e nella sacrestia viene accolto e nascosto un gruppo d’immigrati nordafricani e così il prete (Michael Lonsdale) riscopre la sua vera vocazione: «Ho fatto il prete per fare del bene, ma per fare il bene non serve la fede. Il bene è più della fede», riflette il sacerdote, alter ego dello stesso Olmi. «Non siete d’accordo?», ha chiesto Olmi al pubblico di Fazio. Figurarsi. Insomma, per l’ex cineasta di più elevato spirito religioso, la fede è diventata un intralcio a compiere il bene e il crocifisso un impedimento ad accogliere gli immigrati. Missione peraltro sacrosanta, come ha argomentato in un recente intervento sull’Espresso («Amerai lo straniero come te stesso») anche il cardinal Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura nonché, insieme con Claudio Magris, consulente di Olmi per Il villaggio di cartone. Sarebbe bastato lasciare al suo posto il crocefisso anziché deporlo alla prima scena. E avremmo potuto discutere a lungo sulla mancanza di carità tra i cristiani verso gli stranieri. Invece, sia alla Mostra di Venezia che da Fazio Olmi ha sottolineato che «è troppo facile inginocchiarsi davanti a un simbolo di cartone. Cristo è morto in croce duemila anni fa. Ora bisogna inginocchiarsi davanti a chi soffre, agli immigrati, ai giovani senza lavoro, a chi è vittima della droga». Applausi della platea. Così la riduzione sociale del cristianesimo rischia di passare in prima serata con le benedizioni più prestigiose e autorevoli. E anche nei sacrari della cultura come il Piccolo Teatro Strehler dove ieri sera, post anteprima, Olmi è stato applaudito da Ferruccio De Bortoli, Giulio Giorello e don Gino Rigoldi. Eppure, il regista aveva intestato il pressbook del suo film con una frase di Indro Montanelli che avrebbe dovuto illuminarlo: «L’unica grande rivoluzione avvenuta nel nostro mondo occidentale è quella di Cristo il quale dette all’uomo la consapevolezza del bene e del male, e quindi il senso del peccato e del rimorso. In confronto a questa, tutte le altre rivoluzioni - compresa quella francese e quella russa - fanno ridere». Invece il verbo della religione sociale ha prodotto e rischia di produrre una conversione al contrario anche in certi ambienti cristiani. Prima verrebbero le buone azioni, la solidarietà e la virtù, come se la Chiesa fosse una gigantesca Caritas. Poi la fede. Ma a questo punto la venuta di Gesù Cristo sarebbe superflua. Al contrario, nel Dialogo dell’Anticristo il grande filosofo russo Vladimir Solov’ev fa dire allo starets Giovanni rivolto all’imperatore che lo interroga su ciò a cui tengono i cristiani: «Grande sovrano! Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso e tutto ciò che proviene da lui». Carità compresa. (di Maurizio Caverzan- tratto da "Il Giornale")

03 ottobre 2011

Quella parole del Papa frettolosamente archiviate




Domenica 25 settembre, giornata conclusiva del suo terzo viaggio in Germania, Benedetto XVI, incontrando i «cattolici impegnati nella Chiesa e nella società» alla Konzerthaus di Friburgo, ha pronunciato un discorso per certi versi più dirompente e «storico» rispetto a quello tenuto tre giorni prima davanti al Bundestag di Berlino.


Ecco alcuni passaggi del discorso di Papa Ratzinger, che partiva dalla constatazione della diminuzione della pratica religiosa e dalla domanda su quale fosse il cambiamento e il rinnovamento necessario per la Chiesa, che «deve sempre di nuovo verificare la sua fedeltà» alla missione affidatale: essere testimone, fare discepoli tutti i popoli, proclamare il Vangelo a ogni creatura. Per compiere la sua missione, la Chiesa «dovrà anche continuamente prendere le distanze dal suo ambiente, dovrà, per così dire, essere "demondanizzata"». La Chiesa «Non possiede niente da sé stessa di fronte a Colui che l’ha fondata, in modo da poter dire: l’abbiamo fatto molto bene! Il suo senso consiste nell’essere strumento della redenzione, nel lasciarsi pervadere dalla parola di Dio e nell’introdurre il mondo nell’unione d’amore con Dio. La Chiesa s’immerge nell’attenzione condiscendente del Redentore verso gli uomini. Quando è davvero se stessa, essa è sempre in movimento, deve continuamente mettersi al servizio della missione, che ha ricevuto dal Signore. E per questo deve sempre di nuovo aprirsi alle preoccupazioni del mondo, del quale, appunto, essa stessa fa parte, dedicarsi senza riserve tali preoccupazioni, per continuare e rendere presente lo scambio sacro che ha preso inizio con l’incarnazione». «Nello sviluppo storico della Chiesa si manifesta, però, anche una tendenza contraria: quella cioè di una Chiesa soddisfatta di se stessa, che si accomoda in questo mondo, è autosufficiente e si adatta ai criteri del mondo. Non di rado dà così all’organizzazione e all’istituzionalizzazione un’importanza maggiore che non alla sua chiamata all’essere aperta verso Dio e ad un aprire il mondo verso il prossimo». «Per corrispondere al suo vero compito, la Chiesa deve sempre di nuovo fare lo sforzo di distaccarsi da questa sua secolarizzazione e diventare nuovamente aperta verso Dio». Benedetto XVI ha quindi accennato agli effetti positivi che hanno avuto nel corso delle storia certe «secolarizzazioni» e certe perdite di potere per la Chiesa: «Le secolarizzazioni infatti – fossero esse l’espropriazione di beni della Chiesa o la cancellazione di privilegi o cose simili – significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità: essa si spoglia, per così dire, della sua ricchezza terrena e torna ad abbracciare pienamente la sua povertà terrena. Con ciò condivide il destino della tribù di Levi che, secondo l’affermazione dell’Antico Testamento, era la sola tribù in Israele che non possedeva un patrimonio terreno, ma, come parte di eredità, aveva preso in sorte esclusivamente Dio stesso, la sua parola e i suoi segni. Con tale tribù, la Chiesa condivideva in quei momenti storici l’esigenza di una povertà che si apriva verso il mondo, per distaccarsi dai suoi legami materiali, e così anche il suo agire missionario tornava ad essere credibile». «Gli esempi storici mostrano che la testimonianza missionaria di una Chiesa "demondanizzata" emerge in modo più chiaro. Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo. Può nuovamente vivere con più scioltezza la sua chiamata al ministero dell’adorazione di Dio e al servizio del prossimo. Il compito missionario, che è legato all’adorazione cristiana e dovrebbe determinare la struttura della Chiesa, si rende visibile in modo più chiaro». «Non si tratta qui di trovare una nuova tattica per rilanciare la Chiesa. Si tratta piuttosto di deporre tutto ciò che è soltanto tattica e di cercare la piena sincerità, che non trascura né reprime alcunché della verità del nostro oggi, ma realizza la fede pienamente nell’oggi vivendola, appunto, totalmente nella sobrietà dell’oggi, portandola alla sua piena identità, togliendo da essa ciò che solo apparentemente è fede, ma in verità è convenzione ed abitudine». «Vi è una ragione in più per ritenere che sia nuovamente l’ora di trovare il vero distacco del mondo, di togliere coraggiosamente ciò che vi è di mondano nella Chiesa. Questo, naturalmente, non vuol dire ritirarsi dal mondo, anzi, il contrario. Una Chiesa alleggerita degli elementi mondani è capace di comunicare agli uomini – ai sofferenti come a coloro che li aiutano – proprio anche nell’ambito sociale-caritativo, la particolare forza vitale della fede cristiana». Una Chiesa alleggerita da elementi mondani, sobria, spoglia della sua ricchezza terrena e grazie a ciò più «trasparente» ed essenziale nella testimonianza, nel comunicare ciò che ha ricevuto. Queste parole di Benedetto XVI sono state archiviate troppo presto, troppo frettolosamente. Erano rivolte alla Chiesa tedesca, fortemente strutturata, ma il loro valore va ben al di là dei confini della Germania. È una «conversione» chiesta alla Chiesa in tutto il mondo. Sono parole che meriterebbero di essere meditate, assimilate e messe in pratica ovunque la Chiesa si trovi. A cominciare dal Vaticano. (di Andrea Tornielli- tratto da "Vatican Insider)

Guerra a colpi di poster. Il Nord Est si ribella alla bestemmia

Il terzo comandamento lo dice forte e chiaro: «Non pronunciare il nome di Dio invano». E qualcuno, proprio laddove gli epiteti rivolti all’Aldilà sono il pane quotidiano, il monito l’ha preso sul serio. Prefiggendosi un obiettivo nobile quanto irto di ostacoli: eliminare le bestemmie dal linguaggio quotidiano. Siamo nel Triveneto, dove per tradizione a Dio e alla Madonna ci si rivolge non solo per pregare. In tre paesi, nelle province di Padova, Venezia e Pordenone, la guerra alla bestemmia è ufficialmente cominciata. E ha assunto le forme più originali. A San Donà di Piave (Venezia) nel campo di calcio del Mussetta 2010 - che milita nel campionato di terza categoria - è apparsa una gigantografia, alta ben due metri, di Santa Maria Assunta. L’immagine è stata affissa sulla rete a bordo campo, nello stadio Lillo Burigotto, come monito per tutti i presenti: la Beata Vergine va rispettata sempre, anche quando gli avversari fanno gol. L’idea è dei dirigenti della piccola società, che hanno cominciato la loro originale battaglia per sensibilizzare pubblico e calciatori a «una partita corretta e senza bestemmie». Poco distante, a Montegrotto (Padova), il sindaco Massimo Bordin il campo di calcio ha deciso addirittura di chiuderlo per sempre. Troppe le bestemmie che, anno dopo anno, sono arrivate alle orecchie del parroco e dei fedeli riuniti nella vicina chiesa di Mezzavia. Così il primo cittadino, di fronte all’ennesima lamentela, ha «scomunicato» il piccolo stadio. Al suo posto sorgerà la nuova piazza del paese - con tanto di fontana o monumento - mentre i calciatori dovranno traslocare nel nuovo campo comunale in costruzione vicino al Palasport. A Erto (Pordenone) - in piena valle del Vajont - lo sport non c’entra invece nulla. Questa volta a far discutere sono decine di volantini che, in una sola notte, hanno tappezzato i muri della cittadina. Recitano frasi come «Ragazzi: non bestemmiamo più. Da oggi glorifichiamo Dio», oppure «Io sono il Signore, colui che ti guarisce». E ancora: «Ragazzi: non bestemmiamo più. La bestemmia ci allontana da Dio e ci avvicina a Satana. Dio piange, Satana si diverte e ride». I cartelli sono stati appesi ovunque: sui muri di palazzi e monumenti, sulle porte delle case, sui balconi dei condomini. Il sindaco e i cittadini però non c’entrano nulla, questa volta. Da queste parti la bestemmia è nel dna. L’obiettivo ecumenico è di un passante, che di fronte all’ennesimo epiteto rivolto a Gesù non ce l’ha fatta più. Prima è entrato in un bar e rivolgendosi ai giovani presenti ha detto: «Se il Vajont è venuto giù è colpa delle vostre bestemmie». Poi, armato di fogli e pennarello, ha tappezzato la città. «L’invito è anche positivo - commenta il sindaco, Luciano Pezzin - ma di sicuro i miei cittadini non smetteranno di bestemmiare per un paio di volantini». E, in effetti, i residenti di Erto hanno pensato più che altro a uno scherzo. «La reazione è stata di ilarità - continua Pezzin. La gente guardava i volantini e sorrideva. È impossibile immaginare che basteranno questi pezzi di carta per eliminare le bestemmie dal linguaggio comune. Qui da noi sono concepite come intercalare. È un’abitudine troppo radicata, soprattutto fra gli anziani». E così l’educatore di passaggio viene definito comunemente «un po’ fuori di testa», mentre i suoi volantini ancora resistono attaccati alle pareti. «Io non mi permetterò mai di toglierli - conclude il primo cittadino -, in se stesso l’invito è più che positivo. Ho però i miei dubbi che basterà a cambiare per sempre le abitudini di questi luoghi».


(di Daniele Uva- tratto da "Il Giornale")