29 dicembre 2010

Death Panels


Domandiamoci senza pregiudizi che cosa significhi introdurre per regolamento l’uso di pagare i medici di stato affinché abbiano ogni anno un colloquio con i vecchi pazienti del programma americano Medicare, sul tema del come morire, del come rifiutare terapie di sostegno vitale indesiderate. Che vuol dire questo testamento in vita, sulla vita, consegnato al confessionale della sanità pubblica?
Gli avversari di Barack Obama dicono: death panels, comitati della morte. C’è enfasi in questo, e c’è in questo accento forte il dramma politico che ha portato alla eliminazione di questi protocolli dalla legge di riforma del sistema sanitario, per riproporli dal primo gennaio via regolamento, a sorpresa, a tradimento. Gente in buona fede, anche cattolici come Martini e Verzé e le ribelli suore americane, gente che arde di zelo per un compromesso apostolico con i tempi, pensa così: la medicina ha preso un posto ingente nella vita d’oggi, l’età media si è allungata, esiste un problema sociale, quello del protrarsi inutile delle cure o addirittura di accanimenti non desiderati, e bisogna risolverlo come si può, consacrando l’autonomia personale, l’autodeterminazione degli individui di fronte alla fine della loro vita, insomma il diritto di morire.
Qualche elemento di verità in questo modo di ragionare c’è, naturalmente. Siamo diversamente esposti, rispetto a tempi in cui il bios era un fondo di bottiglia misterioso, alla scienza medica, nel bene e nel male. E la libertà di determinarsi come si vuole ha fatto tali progressi che per molti, forse grandi maggioranze, è impensabile cederne anche solo una quota all’idea astratta, metafisica, che siamo una creatura umana, un intoccabile costrutto di anima e corpo che per la vita e per la morte dipende da Dio o da un rapporto insondabile con l’essere delle cose e della persona. Dipende cioè da una relazione che può essere interrotta in forza della nostra volontà privata, in un abbandono fiducioso nella zona grigia tra vita e non vita, ma che è irriducibile, in termini di diritto, di legge, di regolamento pubblico, alla decisione sovrana di ciascuno di noi o, peggio, della comunità che decide per noi sulla questione fatale del nulla.
Nel secolo scorso si era creduto che la battaglia finale sarebbe stata tra comunisti ed ex comunisti, lo diceva il vecchio e saggio scrittore Ignazio Silone. Invece con il nuovo secolo è sempre più chiaro che la resa dei conti sarà tra un secolarismo della specie più pervasiva e un cristianesimo eviscerato della sua virtualità normativa, privato della sua influenza sociale e politica e civile. Quel medico di un leader a suo modo cristiano come Obama che ogni anno, per regolamento, parlerà con milioni di vecchi americani di ogni ceppo, ispanici, neri, wasp, caraibici, polacchi, italiani, irlandesi e così via, è l’Ersatz, il sostituto sociologico e spirituale del prete confessore, e la nuova religione secolarista, religione culturale e ideologica senza rivelazione e senza la talare ma con un suo clero in càmice molto incisivo, questa nuova religione è la medicina federale: ti obbliga ad assicurarti ma al tempo stesso ti chiede di liberarti senza tante storie della tua vita calante per risparmiare sui costi inutili della salute pubblica, e ti confonde nella testa le due nozioni di salute e salvezza, bene e benessere. Con il pretesto libertario della tua autodeterminazione.
(di Giuliano Ferrara- tratto da "Il Foglio" del 28/12/2010)

27 dicembre 2010

Basta con la Messa creativa, in chiesa silenzio e preghiera


La liturgia cattolica vive «una certa crisi» e Benedetto XVI vuole dar vita a un nuovo movimento liturgico, che ripor­ti più sacralità e silenzio nella messa, e più attenzione alla bel­lezza nel canto, nella musica e nell'arte sacra. Il cardinale Anto­nio Cañizares Llovera, 65 anni, Prefetto della Congregazione del culto divino, che quando era vescovo in Spagna veniva chia­mato «il piccolo Ratzinger», è l'uomo al quale il Papa ha affida­to questo compito. In questa in­tervista al Giornale, il «mini­stro» della liturgia di Benedetto XVI rivela e spiega programmi e progetti.

Da cardinale, Joseph Ratzin­ger aveva lamentato una cer­ta fretta nella riforma liturgi­ca postconciliare. Qual è il suo giudizio?
«La riforma liturgica è stata re­alizzata con molta fretta. C'era­no ottime intenzioni e il deside­rio di applicare il Vaticano II. Ma c'è stata precipitazione. Non si è dato tempo e spazio suf­ficiente per accogliere e interio­rizzare gli insegnamenti del Concilio, di colpo si è cambiato il modo di celebrare. Ricordo be­ne la mentalità allora diffusa: bi­sognava cambiare, creare qual­cosa di nuovo. Quello che aveva­mo ricevuto, la tradizione, era vi­sta come un ostacolo. La rifor­ma è stata intesa come opera umana, molti pensavano che la Chiesa fosse opera delle nostre mani, invece che di Dio. Il rinno­vamento liturgico è stato visto come una ricerca di laboratorio, frutto dell'immaginazione e del­la creatività, la parola magica di allora».

Da cardinale Ratzinger ave­va auspicato una «riforma della riforma» liturgica, paro­le oggi impronunciabili persi­no in Vaticano. Appare però evidente che Benedetto XVI la desideri. Può parlarcene?
«Non so se si possa, o se con­venga, parlare di "riforma della riforma". Quello che vedo asso­lutamente necessario e urgen­te, secondo ciò che desidera il Papa, è dar vita a un nuovo, chia­ro e vigoroso movimento liturgi­co in tutta la Chiesa. Perché, co­me­spiega Benedetto XVI nel pri­mo volume della sua Opera Om­nia, nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa. Cristo è presente nella Chiesa attraverso i sacra­menti. Dio è il soggetto della li­turgia, non noi. La liturgia non è un'azione dell'uomo, ma è azio­ne di Dio».

Il Papa più che con le decisio­ni calate dall'alto, parla con l'esempio: come leggere i cambiamenti da lui introdot­ti nelle celebrazioni papali?
«Innanzitutto non deve esser­ci alcun dubbio sulla bontà del rinnovamento liturgico conci­liare, che ha portato grandi be­nefici nella vita della Chiesa, co­me la partecipazione più co­sciente e attiva dei fedeli e la pre­senza arricchita della Sacra Scrittura. Ma oltre a questi e altri benefici, non sono mancate del­le ombre, emerse negli anni suc­cessivi al Vaticano II: la liturgia, questo è un fatto, è stata "ferita" da deformazioni arbitrarie, pro­vocate anche dalla secolarizza­zione che purtroppo colpisce pure all'interno della Chiesa. Di conseguenza, in tante celebra­zioni, non si pone più al centro Dio, ma l'uomo e il suo protago­nismo, la sua azione creativa, il ruolo principale dato all'assem­blea. Il rinnovamento concilia­re è stato inteso come una rottu­ra e non come sviluppo organi­co della tradizione. Dobbiamo ravvivare lo spirito della liturgia e per questo sono significativi i gesti introdotti nelle liturgie del Papa: l'orientamento dell'azio­ne liturgica, la croce al centro dell'altare, la comunione in gi­nocchio, il canto gregoriano, lo spazio per il silenzio, la bellezza nell'arte sacra. È anche necessa­ri­o e urgente promuovere l'ado­razione eucaristica: di fronte al­la presenza reale del Signore non si può che stare in adorazio­ne».

Quando si parla di un recupe­ro della dimensione del sa­cro c'è sempre chi presenta tutto questo come un sempli­ce ritorno al passato, frutto di nostalgia. Come rispon­de?
«La perdita del senso del sa­cro, del Mistero, di Dio, è una delle perdite più gravi di conse­guenze per un vero umanesi­mo. Chi pensa che ravvivare, re­cuperare e rafforzare lo spirito della liturgia, e la verità della ce­lebrazione, sia un semplice ritor­no a un passato superato, igno­ra la verità delle cose. Porre la li­turgia al centro della vita della Chiesa non è affatto nostalgico, ma al contrario è la garanzia di essere in cammino verso il futu­ro».

Come giudica lo stato della li­turgia cattolica nel mondo?
«Di fronte al rischio della routi­ne, di fronte ad alcune confusio­ni, alla povertà e alla banalità del canto e della musica sacra, si può dire che vi sia una certa cri­si. Per questo è urgente un nuo­vo movimento liturgico. Bene­detto XVI indicando l'esempio di san Francesco d'Assisi, molto devoto al Santissimo Sacramen­to, ha spiegato che il vero rifor­matore è qualcuno che obbedi­sce alla fede: non si muove in modo arbitrario e non si arroga alcuna discrezionalità sul rito. Non è il padrone ma il custode del tesoro istituito dal Signore e consegnato a noi. Il Papa chiede dunque alla nostra Congrega­zione di promuovere un rinno­vamento conforme al Vaticano II, in sintonia con la tradizione liturgica della Chiesa, senza di­menticare la norma conciliare che prescrive di non introdurre innovazioni se non quando lo ri­ch­ieda una vera e accertata utili­tà per la Chiesa, con l'avverten­za che le nuove forme, in ogni caso, devono scaturire organica­mente da quelle già esistenti».

Che cosa intendete fare co­me Congregazione?
«Dobbiamo considerare il rin­novamento liturgico secondo l'ermeneutica della continuità nella riforma indicata da Bene­detto XVI per leggere il Concilio. E per far questo bisogna supera­re la tendenza a "congelare" lo stato attuale della riforma po­stconciliare, in un modo che non rende giustizia allo svilup­po organico della liturgia della Chiesa. Stiamo tentando di por­tare avanti un grande impegno nella formazione di sacerdoti, seminaristi, consacrati e fedeli laici, per favorire la comprensio­ne del ver­o significato delle cele­brazioni della Chiesa. Ciò richie­de un'adeguata e ampia istruzio­ne, vigilanza e fedeltà nei riti e un'autentica educazione per vi­verli pienamente. Questo impe­gn­o sarà accompagnato dalla re­visione e dall'aggiornamento dei testi introduttivi alle diverse celebrazioni (prenotanda). Sia­mo anche coscienti che dare im­pulso a questo movimento non sarà possibile senza un rinnova­mento della pastorale dell'ini­ziazione cristiana».

Una prospettiva che andreb­be applicata anche all'arte e alla musica...
«Il nuovo movimento liturgi­co dovrà far scoprire la bellezza della liturgia. Perciò apriremo una nuova sezione della nostra Congregazione dedicata ad "Ar­te e musica sacra" al servizio del­la liturgia. Ciò ci porterà a offrire quanto prima criteri e orienta­menti per l'arte, il canto e la mu­sica sacri. Come pure pensiamo di offrire prima possibile criteri e orientamenti per la predicazio­ne».

Nelle chiese spariscono gli in­ginocchiatoi, la messa talvol­ta è ancora uno spazio aperto alla creatività, si tagliano per­sino le parti più sacre del ca­none: come invertire questa tendenza?
«La vigilanza della Chiesa è fondamentale e non deve esse­re considerata come qualcosa di inquisitorio o repressivo, ma un servizio. In ogni caso dobbia­mo rendere tutti coscienti del­l'esigenza, non solo dei diritti dei fedeli, ma anche del "diritto di Dio"».

Esiste anche il rischio oppo­sto, cioè quello di credere che la sacralità della liturgia dipenda dalla ricchezza dei paramenti: una posizione frutto di estetismo che sem­bra ignorare il cuore della li­turgia...
«La bellezza è fondamentale, ma è qualcosa di ben diverso da un'estetismo vuoto, formalista e sterile, nel quale invece talvol­ta si cade. Esiste il rischio di cre­dere che la bellezza e la sacralità del liturgia dipendano dalla ric­chezza o dall'antichità dei para­menti. Ci vuole una buona for­mazione e una buona catechesi basata sul Catechismo della Chiesa cattolica, evitando an­che il rischio opposto, quello della banalizzazione, e agendo con decisione ed energia quan­do si ricorre a usanze che hanno avuto il loro senso nel passato ma oggi non ce l'hanno o non aiutano in alcun modo la verità della celebrazione».

Può dare qualche indicazio­ne concreta su che cosa po­trebbe cambiare nella litur­gia?
«Più che pensare a cambia­menti, dobbiamo impegnarci nel ravvivare e promuovere un nuovo movimento liturgico, se­guendo l'insegnamento di Bene­detto XVI, e ravvivare il senso del sacro e del Mistero, metten­do Dio al centro di tutto. Dobbia­mo dare impulso all'adorazio­ne eucaristica, rinnovare e mi­gliorare il canto liturgico, colti­vare il silenzio, dare più spazio alla meditazione. Da questo sca­turiranno i cambiamenti...».

(di Andrea Tornielli- tratto da "Il Giornale")

23 dicembre 2010

Il prodigio che tutti aspettiamo


«Tutta la mia vita è sempre stata attraversata da un filo conduttore, questo: il Cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti. In definitiva un’esistenza vissuta sempre e soltanto “contro” sarebbe insopportabile» (Luce del mondo, p. 27). Queste parole di Benedetto XVI ci lanciano una sfida: che cosa significa essere cristiani oggi? Continuare a credere semplicemente per tradizione, devozione o abitudine, ritirandosi nel proprio guscio, non è all’altezza della sfida. Allo stesso modo, reagire con forza e andare contro per recuperare il terreno perduto è insufficiente, il Papa dice addirittura che è «insopportabile». L’una e l’altra strada − ritirarsi dal mondo o essere contro − non sono capaci, in fondo, di suscitare interesse per il cristianesimo, perché nessuna delle due rispetta quello che sarà sempre il canone dell’annuncio cristiano: il Vangelo. Gesù si è posto nel mondo con una capacità di attrarre che ha affascinato gli uomini del suo tempo. Come dice Péguy: «Egli non perse i suoi anni a gemere e interpellare la cattiveria dei tempi. Egli tagliò corto… Facendo il cristianesimo». Cristo ha introdotto nella storia una presenza umana così affascinante che chiunque vi si imbatteva doveva prenderla in considerazione. Per rifiutarla o per accettarla. Non ha lasciato indifferente nessuno.
Oggi ci troviamo tutti di fronte a una «crisi dell’umano», che si documenta come stanchezza e disinteresse verso la realtà e che coinvolge tutti gli ambiti che hanno a che fare con la vita della gente. È una disgrazia per tutti, infatti, che le persone non si mettano in gioco con la loro ragione e la loro libertà. E proprio in questo momento la Chiesa ha davanti a sé un’avventura affascinante, la stessa delle origini: testimoniare che c’è qualcosa in grado di risvegliare e suscitare un interesse vero. «Anche il mio cuore aspetta, / alla luce guardando ed alla vita, / altro prodigio della primavera». Tutti noi, come il poeta Antonio Machado, aspettiamo il miracolo della primavera, in cui vedere compiersi la nostra vita. E se qualcuno dirà, ancora col poeta, che è un sogno, perché lo aspettiamo? Perché questa attesa ci costituisce nell’intimo, come scrive Benedetto XVI: «L’uomo aspira ad una gioia senza fine, vuole godere oltre ogni limite, anela all’infinito» (Luce del mondo, p. 95). Ma l’uomo può decadere, il mondo può cercare di scalzare questo desiderio dell’infinito minimizzandolo; può perfino prenderlo in giro offrendo qualcosa che attira per qualche tempo, ma che non dura, e alla fine lascia solo più insoddisfatti e più scettici. Ora, la prova della verità di ciò che affascina e risveglia un interesse è che deve durare. Ma anche le cose più belle – lo vediamo quando si ama una persona o quando si intraprende un nuovo lavoro – vengono meno. Il problema della vita, allora, è se esiste qualcosa che dura.
Il cristianesimo ha la pretesa – perché la sua origine non è umana, anche se si può vedere nei volti degli uomini che lo hanno incontrato – di portare l’unica risposta in grado di durare nel tempo e nell’eternità. Però un cristianesimo ridotto non è in grado di fare questo. Sappiamo per esperienza che esiste un modo astratto di parlare della fede che non suscita la minima curiosità. Se il cristianesimo non viene rispettato nella sua natura, così come è comparso nella storia, non può mettere radici nel cuore.Il cristianesimo è sempre messo alla prova di fronte al desiderio del cuore, e non se ne può liberare: è Cristo stesso che si è sottoposto a questa prova. L’aspetto affascinante è che Dio, spogliandosi del Suo potere, si è fatto uomo per rispettare la dignità e la libertà di ciascuno. Incarnandosi, è come se avesse detto all’uomo: «Guarda un po’ se, vivendo a contatto con me, trovi qualcosa di interessante che rende la tua vita più piena, più grande, più felice. Quello che tu non sei capace di ottenere con i tuoi sforzi, lo puoi ottenere se mi segui». È stato così fin dall’inizio. Quando i due primi discepoli domandano: «Dove abiti?», Egli risponde: «Venite e vedrete». La sua semplicità è disarmante. Dio si affida al giudizio dei primi due che Lo incontrano. L’uomo non può evitare di paragonare continuamente ciò che accade con le sue esigenze fondamentali.
Qualcuno potrebbe obiettare che all’epoca di Gesù si vedevano i miracoli, ma oggi non è più tempo di prodigi. Non è così, perché questa esperienza continua ad avere luogo, come il primo giorno: quando incontri persone che risvegliano in te un interesse e un’attrattiva tali che ti obbligano a fare i conti con quello che ti è accaduto. Come dice il Papa, «Dio non si impone. […] La sua esistenza si manifesta in un incontro, che penetra nella più intima profondità dell’uomo» (Luce del mondo, p. 240).
Alcuni anni fa un mio amico è andato a studiare arabo a Il Cairo. Ha incontrato un professore musulmano. L’incontro si sarebbe potuto svolgere secondo gli stereotipi dell’uno e dell’altro. Ma è accaduta una cosa inattesa: sono diventati amici. Il musulmano ha domandato al mio amico perché era cristiano, e questi lo ha invitato in Italia, dove ha conosciuto il Meeting di Rimini. Trascinato dall’incontro con una realtà umana diversa, ha voluto realizzare il Meeting de Il Cairo, coinvolgendo molti giovani egiziani, musulmani e cristiani.
Di recente, a Mosca, ho conosciuto persone che fino a poco tempo fa non avevano niente a che fare con la fede. L’hanno scoperta incontrando dei cristiani che le avevano incuriosite. Alcune erano battezzate nella Chiesa ortodossa e si sono interessate al cristianesimo – cosa che non avevano mai fatto prima – grazie ad amici che lo vivevano con intensità e pienezza.
Non sono storie del passato, ma qualcosa che accade ora, nel presente.
Nella sua recente visita in Spagna, Benedetto XVI ha invitato a un dialogo tra laicità e fede. E come lo ha fatto? Indicando una presenza, un testimone, Gaudì, che con la Sagrada Familia «è stato capace di creare […] uno spazio di bellezza, di fede e di speranza, che conduce l’uomo all’incontro con colui che è la verità e la bellezza stessa». Il Papa ha sfidato tutti rendendo contemporaneo lo sguardo di Cristo e indicando l’esperienza nuova che Egli immette nella vita: chiunque può interessarsene o rifiutarla. Quando Benedetto XVI ci chiama alla conversione ci sta dicendo che per testimoniare Cristo, per farci «trasparenza di Cristo per il mondo», dobbiamo percorrere un cammino umano fino a scoprire la pertinenza della fede alle esigenze della nostra vita. Non so se qualche cattolico si può sentire escluso dalla chiamata del Papa. Io no.

(di don Julian Carron)

22 dicembre 2010

Gerry Scotti e la nuova evangelizzazione


Domenica sera stavo guardando “il milionario”, il quiz televisivo di successo condotto dal bravo Gerry Scotti, quando al concorrente, un ragazzo di Ponte Lambro, è stata rivolta una domanda di cultura religiosa. Gli è stato chiesto a quale sacramento corrispondesse la “penitenza” o “riconciliazione”.
Le quattro possibili risposte erano: battesimo, cresima, confessione e comunione. Il ragazzo è rimasto di stucco. Non frequentava i sacramenti da parecchio. Ha dunque pensato di affidarsi all’aiuto del pubblico, uno degli aiuti a cui si può ricorrere per una volta soltanto nel corso della gara. Gli spettatori del “milionario” presenti in studio, pubblico vario ed eterogeneo, hanno quindi usato il loro personale telecomando per suggerire al giovane la risposta esatta.
Con una certa sorpresa, ben l’81 per cento degli spettatori ha sbagliato, indicando sacramenti diversi dalla confessione, che è stata scelta soltanto dal 19 per cento dei votanti. Anche Gerry Scotti, pur con il suo fine umorismo, non ha nascosto un certo sconcerto. Se qualcuno volesse la prova di che cosa significhino le parole secolarizzazione e scristianizzazione, basta che osservi esempi come questo. Esempi che peraltro dimostrano anche il fallimento di certa catechesi moderna, che sembra non aver lasciato segno alcuno.
Il ragazzo di Ponte Lambro, facendo un sforzo di memoria, alla fine ha ritenuto che “confessione” fosse la parola che aveva più legami con “penitenza” e “riconciliazione”, e così, nonostante il pubblico, ha risposto in modo corretto. Episodi del genere permettono di comprendere meglio, credo, quell’urgenza della nuova evangelizzazione che ha spinto Benedetto XVI a istituire un apposito nuovo dicastero appositamente dedicato a questo compito.

(di Andrea Tornielli)

20 dicembre 2010

La rabbia e la speranza


«Nascondervi dietro a un dito dicendo che è colpa del black bloc non serve a nulla. Sia­mo noi, ragazzi normali, senza un futuro, pieni di rabbia», scrive un ragazzo a Roberto Saviano. «Mia fi­glia, trent’anni, precaria e nessun sogno», scrive una 'mamma arrabbiata' a un quotidiano. Rabbia, dopo le piazze del 14 dicembre, è la parola più diffusa per raccontare una generazione. Che ha guardato la guer­riglia senza parteciparvi, ma anche, non pochi, sen­za indignarsene; come fosse il rigurgito di una fru­strazione coralmente avvertita.
Non che non ne abbiano ragioni. Questi sono i ragazzi del precariato infinito, lieti, a trent’anni, di un con­tratto che ne dura tre; e ci si chiede come ci si fa una famiglia, o una casa, con prospettive così brevi. Figli generati dalla generazione del posto fisso e spesso supergarantito, si affacciano al lavoro in tempi di cri­si, mentre la globalizzazione del mercato abbatte co­me una falce i privilegi che credevamo intoccabili. Cresciuti nel benessere, educati al consumismo, in­travedono un orizzonte in implosione, dove saranno più poveri dei loro genitori. Si sentono tratti in in­ganno: la vita è più dura di quanto era loro stato fat­to credere, nell’educazione spesso troppo concilian­te, eredità del motto sessantottino 'vietato vietare', filtrata in tante famiglie. Sono arrabbiati perché assi­stono a un deterioramento vistoso della politica, do­ve il 'bene comune' pare pura retorica. Sono arrab­biati, ancora, in molti, benché difficilmente lo dica­no, per i privati travagli di tante loro famiglie, divise, abbandonate, o per le grandi solitudini di figli unici cresciuti davanti alla tv.
Eredi inconsapevoli di un nichilismo respirato nell’a­ria: non trasmesso dai padri il filo di un senso della vita, di una positiva speranza, che aveva sostenuto ge­nerazioni ben più povere e materialmente travaglia­te. Dunque, le ragioni di rabbia non mancano. Ma, da­vanti al ritornare su troppi media della parola 'rab­bia', non ci si può non chiedere dove porti, la rabbia. Dove si va se, davvero, si ha solo rabbia addosso? An­che in una casa il vivere con la maschera dell’astio, della rivendicazione, della pretesa porta al disastro. L’avere anche oggettive ragioni di rancore, poi, pone in un rischio: sentirsi vittime, 'giusti', anime a posto, e solo l’altro colpevole di tutti i nostri mali. È il senti­mento che legittima le armi, quando qualcuno si con­vince che un mondo giusto lo si debba imporre.
La 'rabbia' coltivata, vezzeggiata, è una strada cie­ca. Viene da domandarsi però: avevano forse meno ragioni di rabbia i ventenni del dopoguerra, reduci da un massacro, tornati in città distrutte? Quei ragazzi avevano, però, anche qualcosa di molto grande: il de­siderio di ricostruire un’altra Italia. Ciò che permise, anche nella fame e nel lutto, di portare via le mace­rie e ricominciare. Quella generazione, che per i ra­gazzi di oggi è quella dei nonni, era cresciuta dentro l’humus di grandi speranze: che fossero la fede e l’i­dea cristiana di una società equa o il socialismo, era­no cose che impostavano la vita. Vivevano, comun­que, certi che non si vivesse per sé soli; sicuri di un senso del continuare nei figli, anche quando emi­gravano a lavorare in città lontane e straniere; in mo­di diversi, erano abitati da un gran desiderio di vita.
L’ultimo rapporto del Censis parla di un «calo del de­siderio» in Italia, del desiderio di fare, costruire, ini­ziare. (Quel desiderio, quella fiducia, che per i cri­stiani è la speranza). Non è anche per una crisi di spe­ranza che i ragazzi si sentono traditi? Se una genera­zione non ha tramandato questo desiderio, ha man­cato di molto. E però la rabbia non basta. Occorre ri­cominciare, e occorre che ricomincino i figli.
Come? Sentite questo dialogo fra due ragazzi del­l’anno 1942, forse il più oscuro della guerra. Lei è Etty Hillesum, giovane ebrea che morirà a Auschwitz. Lui è un amico comunista. «Vedi, Klaas, non si combina niente con l’odio. (..) Ognuno deve distruggere in sé stesso ciò che vorrebbe distruggere negli altri. Ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende più inospitale». E Klaas, annota la Hillesum nel suo
Diario, «Da arrabbiato militante di classe ha replica­to: ma questo, sarebbe di nuovo cristianesimo! E io, divertita da tanto smarrimento: certo, cristianesimo. Perché poi no?».

(di Marina Corradi- tratto da "Avvenire")

15 dicembre 2010

L'incanaglimento della politica

Chi ha organizzato la canaglia squadrista contro il Parlamento? Chi ha promosso i suoi slogan, oltre che i suoi pullman? Chi ha creato lo stato emotivo teppistico per un attacco a freddo alla vita democratica, mandando allo sbaraglio giovanotti attempati e carichi di libidine violenta?Queste sono le domande da farsi in queste ore. E le risposte non sono poi così difficili. I responsabili della guerriglia urbana, che per un miracolo non ha fatto vittime, e che si è accanita contro i simboli del vivere civile nella capitale della Repubblica, sono noti. Una sinistra imbevuta ormai di bolsa ma aggressiva retorica anti-istituzionale, sulla scia di un ex poliziotto dalla vita difficile che lasciò tanti anni fa per una ambigua fuga verso la politica la magistratura, dopo aver contribuito in modo ancor oggi misterioso alla destabilizzazione della Repubblica dei partiti. E una borghesia priva di senno e di potere coesivo, che ha approntato il clima attraverso i suoi giornali, con una speciale menzione per la performance allarmistica e incitatoria del Corriere della Sera, che fingeva di scongiurare un clima giottino nel momento in cui lo fomentava tra le righe.Sotto il miserabile pretesto della “compravendita” di parlamentari si è scatenata una campagna di qualunquismo becero e di odio contro le istituzioni, e l’anno chiamata “sfiducia dal basso” o “faremo l’inferno se il governo non cade”. Una performance di sordido cinismo dalla quale la sinistra e i borghesi decaduti di un establishment intollerante e ambiguo non si risolleveranno tanto presto. Soprattutto se la risposta della maggioranza di governo eletta e confermata da un voto delle Camere sarà serena, ferma ma lucida, e se ai toni della reciproca delegittimazione faziosa, generatrice di violenza, subentreranno gli argomenti della buona politica, da una parte e dall’altra. Ora, di fronte a questa precipitazione nell’irrazionale e nel violento della pseudocampagna antipopulista, i cittadini si aspettano un intervento coesivo, a tutela della Costituzione e delle sue regole, e a censura di una degenerazione della politica in ribalderia, del capo dello stato. Il presidente della Camera deve cambiare tono o veste: un leader politico che assume un ruolo di garanzia modula il suo intervento sulla scena pubblica, non può essere il capo di una fazione antigovernativa aggressiva e militante. A questo punto è dovere della maggioranza assumere su di sé la questione delle garanzie e delle regole del gioco democratico-liberale, e non mollare finché non sia stato ristabilito un livello minimo di decenza e di rispetto.
(di Giuliano Ferrara- tratto da "Il Foglio")

12 dicembre 2010

Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell'uomo

Crisi sociale, economica e politica. Alla fine di questo 2010 tutti siamo presi dallo sconcerto. Come ha detto di recente il cardinale Bagnasco, «siamo angustiati per l’Italia che scorgiamo come inceppata nei suoi meccanismi decisionali, mentre il Paese appare attonito e guarda disorientato». Perché questa crisi ci trova così disarmati, al punto che non riusciamo neanche a metterci d’accordo per affrontarla, pur sentendone l’urgenza come non mai?

A sorpresa il Rapporto Censis 2010 ha individuato la natura della crisi in un «calo del desiderio» che si manifesta in ogni aspetto della vita. Abbiamo meno voglia di costruire, di crescere, di cercare la felicità. A questo fatto andrebbe attribuita la responsabilità delle «evidenti manifestazioni di fragilità sia personali sia di massa, comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattivi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro». Come mai, se siamo stati in grado di raggiungere importanti obiettivi nel passato (casa, lavoro, sviluppo…), adesso «siamo una società pericolosamente segnata dal vuoto» e a un ciclo storico pieno di interesse e voglia di fare ne segue un altro segnato dal suo annullamento?

Tutto questo ci mostra che la crisi è sì sociale, economica e politica, ma è soprattutto antropologica perché riguarda la concezione stessa della persona, della natura del suo desiderio, del suo rapporto con la realtà. Ci eravamo illusi che il desiderio si sarebbe mantenuto in vita da solo o addirittura che sarebbe stato più vivo nella nuova situazione di benessere raggiunto. L’esperienza ci mostra, invece, che il desiderio può appiattirsi se non trova un oggetto all’altezza delle sue esigenze. Ci ritroviamo così tutti «sazi e disperati». «Nell’appiattimento del desiderio ha origine lo smarrimento dei giovani e il cinismo degli adulti; e nella astenia generale l’alternativa qual è? Un volontarismo senza respiro e senza orizzonte, senza genialità e senza spazio, e un moralismo d’appoggio allo Stato come ultima fonte di consistenza per il flusso umano», come disse don Giussani ad Assago nel 1987.

Venticinque anni dopo vediamo che entrambe queste risposte − volontarismo individualista e speranza statalista- non sono state in grado di darci la consistenza auspicata e ci troviamo ad affrontare la crisi più disarmati, più fragili che in passato. Paradossalmente, i nostri nonni e genitori erano umanamente meglio attrezzati per affrontare simili sfide. Il Censis centra di nuovo il bersaglio quando identifica la vera urgenza di questo momento storico: «Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare una società troppo appagata e appiattita ». Ma chi o che cosa può ridestare il desiderio? È questo il problema culturale della nostra epoca. Con esso sono costretti a misurarsi tutti coloro che hanno qualcosa da dire per uscire dalla crisi: partiti, associazioni, sindacati, insegnanti. Non basterà più una risposta ideologica, perché di tutti i progetti abbiamo visto il fallimento. Saremo perciò costretti a testimoniare un’esperienza.

Anche la Chiesa, il cui contributo non potrà limitarsi a offrire un riparo assistenziale per le mancanze altrui, dovrà mostrare l’autenticità della sua pretesa di avere qualcosa in più da offrire. Come ha ricordato Benedetto XVI, «il contributo dei cristiani è decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà». Dovrà mostrare che Cristo è così presente da essere in grado di ridestare la persona − e quindi tutto il suo desiderio − fino al punto di non farla dipendere totalmente dalle congiunture storiche. Come? Attraverso la presenza di persone che documentano un’umanità diversa in tutti i campi della vita sociale: scuola e università, lavoro e imprenditoria, fino alla politica e all’impegno nelle istituzioni. Persone che non si sentono condannate alla delusione e allo sconcerto, ma vivono all’altezza dei loro desideri perché riconoscono presente la risposta.
Possiamo sperare di uscire dalla drammatica situazione attuale se tutti − compresi i governanti che oggi hanno la difficile responsabilità di guidare il Paese attraverso questa profonda crisi − decidiamo di essere veramente ragionevoli sottomettendo la ragione all’esperienza, se cioè, liberandoci da ogni presunzione ideologica, siamo disponibili a riconoscere qualcosa che nella realtà già funziona. Sostenere chi, nella vita sociale e politica, non si è rassegnato a una misura ridotta del proprio desiderio e per questo lavora e costruisce mosso da una passione per l’uomo, è il primo contributo che possiamo dare al bene di tutti.

Comunione e Liberazione

08 dicembre 2010

Siamo fatti per donare

C’è qualcosa di nuovo nell’aria, anzi di antico. Un fenomeno consueto ma che ha connotati nuovi, a cui bisogna trovare un nome nuovo. Intendo quella u­suale eccitazione che sale piano in questi giorni e riguarda: i regali di Natale. Ma for­se bisognerà trovare dei nomi nuovi. Per­ché le cose cambiano. E se pur occhieg­giano da vetrine e spot i soliti inviti, le 'cla­morose' offerte, i 'mai visti' sconti e le 'sensazionali' proposte, c’è qualcosa di nuovo nell’aria. La solita bella eccitazio­ne si sta forse venando di una pondera­tezza nuova. Insomma, è come se la nor­male, abituale eccitazione di pensare a co­sa regalare a figli amici parenti, fosse abi­tata da una nuova inquietudine, da un so­spetto, o meglio da una domanda.
Mentre si comincia a dare un’occhiata, ancora senza troppo impegno, a vetrine e promozioni, mentre si fanno i primi sva­gati sondaggi su desideri e gusti, un pen­siero rintocca nel profondo: ma cosa ha davvero senso regalare? Certo, la crisi ci ha insegnato a misurare con altra attenzio­ne il denaro, a valutare con più senso cri­tico il valore vero di oggetti, di beni che a volte beni veri e propri non sono, ma sfi­zi, lussi piccoli o grandi, e a riconoscere come superfluo quel che ieri ci pareva ne­cessario. Ma non è solo una sorta di 'com­plesso morale' determinato dalle notizie sulla crisi e dalla realtà di minori risorse a muovere questa strana cosa nuova e an­tica che chiamerei 'eccitazione pensosa' al regalo. Credo che ci sia qualcosa di più profondo. Come se la circostanza della crisi avesse almeno in parte aiutato a met­tere a fuoco meglio anche il valore del far­si regali. Da un lato, infatti, il gesto del donare qual­cosa sfugge a qualsiasi calcolo. È bello fa­re doni anche se si ha poco. Anche se le ri­sorse diminuiscono. Donare è un atto non superfluo. Si può rinunciare a parecchie cose, ma non a donare. Perché fa parte della nostra natura umana. Un uomo che non dona è diventato meno uomo. Nella gratuità 'assurda' di fare un regalo anche quando sono aumentati i nostri bisogni, nella gratuità che va contro ogni logica di tornaconto pur in un momento in cui si devono più attentamente fare i conti, ri­siede un barlume di vero intorno alla no­stra natura: l’uomo è fatto per donare, per donarsi. C’è un impeto positivo che fa par­te della nostra natura, prima e sopra ogni altro. Questo barlume di verità – così pic­colo ma evidente e tenace – può illumi­nare non solo il piccolo e breve episodio del periodo dei regali di Natale, ma po­trebbe indicare qualcosa di importante a riguardo della vita sociale.
Occorre scommettere su questo indirizzo positivo della nostra natura. Lo stesso su cui si fondano tante iniziative di valore so­ciale pubblico per tutti, nei campi del­l’assistenza e dell’educazione e in altri set­tori. Sul fatto che l’uomo è un essere che dona, si può fondare una visione della so­cietà e della sua organizzazione non più improntata al sospetto e alla mortifica­zione burocratica e impositiva della so­cietà. Dall’altro lato, questa eccitazione pensosa che ci prende nel periodo di Na­tale è una sottolineatura del bene che so­no i legami, le relazioni che compongono concretamente ed esistenzialmente la vi­ta di una persona. L’uomo è un essere che dona e ha legami. Il fatto che tali legami siano oggetto di at­tenzione particolare, di scambio di doni, ci fa vedere come la risorsa principale del­la nostra vita (anche in un’epoca di crisi) non stia nella chiusura egoistica, pauro­sa e calcolatrice in termini di diritti e do­veri. Si ha vera società intorno non al­l’uomo che come una monade isolata pensa a se stesso, misurando o inventan­do bisogni e diritti in astratto, ma alla per­sona come nodo di relazioni viventi, nel­le quali si evidenziano non solo potenti indicazioni della natura, ma anche limiti e rispetto.
L’uomo che dona e non è fatto per la so­litudine è il regalo di Natale che tutti pos­siamo ricevere mentre iniziamo a pensa­re quali regali belli fare, ma belli davvero, siano essi piccole cose graziose o beni che vogliamo restino come nostra eredità.
(di Davide Rondoni- tratto da "Avvenire")

05 dicembre 2010

Basta con le Messe in libertà


La recente esortazione post-sinodale la "Verbum Domini" di Benedetto XVI, è stata frettolosamente presentata dalla stampa come un richiamo del Papa contro le "inutili divagazioni" nelle omelie. Però nelle duecento pagine del documento papale, datato 30 settembre 2010 e reso pubblico il successivo 11 novembre, il Papa non si rivolge solo ai sacerdoti, alla loro grande responsabilità, soprattutto quando stanno celebrando l'eucarestia: "Benedetto XVI non si rivolge solo agli specialisti di esegesi biblica, - scrive Massimo Introvigne, direttore del Cesnur- Dal momento che la Parola di Dio è al centro di tutta la vita cristiana, anzi al centro del cosmo e della storia, l'esortazione apostolica è occasione per un'ampia ricognizione che parte dalla Bibbia ma si estende al rapporto tra fede e ragione, alla cultura, alla missione, all'instaurazione dell'ordine temporale e perfino all'arte e a Internet. Una particolare attenzione è dedicata all'interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II". (Massimo Introvigne, Il Papa, il Vaticano II e la parola di Dio, Cesnur. org). Il Papa, nell'esortazione, raccomanda che le omelie, non devono essere "generiche ed astratte, che occultino la semplicità della Parola di Dio (…) che rischiano di attirare l'attenzione sul predicatore piuttosto che al cuore del messaggio evangelico. Per il Papa, "deve risultare chiaro ai fedeli che ciò che sta a cuore al predicatore è mostrare Cristo, che deve essere al centro di ogni omelia. Per questo occorre che i predicatori abbiano confidenza e contatto assiduo con il testo sacro; si preparino per l'omelia nella meditazione e nella preghiera, affinché predichino con convinzione e passione". Comunque le raccomandazioni del Pontefice sulla cura delle celebrazioni eucaristiche, sono importanti, perché esiste tra i fedeli un certo malessere contro il far west delle messe, come si può dedurre da due libri pubblicati recentemente.
In questi giorni in libreria si può trovare un volume del teologo don Nicola Bux, "Come andare a Messa e non perdere la fede", Piemme, pubblica tra l'altro anche i consigli ai predicatori di uno scrittore e di un giornalista che sa farsi ascoltare. Messori consiglia al prete di predicare secondo queste tre regole auree del giornalismo: semplificare, personalizzare, drammatizzare.
Benedetto XVI indica le sue, a proposito delle omelie: "Che cosa dicono le letture proclamate? Che cosa dicono a me personalmente? Che cosa devo dire alla comunità, tenendo conto della sua situazione concreta?". Una particolare attenzione il Papa la chiede anche nei canti che accompagnano la celebrazione, "favorendo" quelli di "chiara ispirazione biblica". In particolare il Pontefice, suggerisce di "valorizzare quei canti che la tradizione della Chiesa ci ha consegnato (...)Penso in particolare all'importanza del canto gregoriano". L' altro libro è uscito l'anno scorso, una inconsueta e significativa "Guida alle messe", sottotitolo: quelle da non perdere: dove e perché, scritta da Camillo Langone, pubblicata dalla laica Mondadori. Chissà se il Papa nel preparare la Verbum Domini, ha dato un'occhiata a queste pubblicazioni.
Langone che è editorialista de Il Foglio, Il Giornale e Panorama, nel libro recensisce (brevi schede) circa 200 delle messe migliori o peggiori d'Italia, un viaggio alla ricerca della Messa come Dio comanda.
L'autore, non avendo il dono dell'ubiquità, per realizzare la Guida, è stato aiutato da molti amici collaboratori, molti appartenenti all'associazionismo cattolico tra il più qualificato. Langone critica e polemizza con certi ambienti ecclesiastici per il degrado liturgico che ha preso il sopravvento dopo le cosiddette aperture del Concilio Vaticano II. Ma le messe non sono tutte uguali? Si chiede Langone. E' la tipica obiezione di chi a messa c'è stato l'ultima volta quando aveva quattordici anni, oppure di chi da quattordici anni frequenta la stessa parrocchia, e si è convinto che il mondo finisca lì.
E invece le messe sono tutte diverse. Chi passasse senza adeguata preparazione dalla messa teocentrica, lunghi silenzi vibranti di sacro, di Santa Maria della Pietà (Bologna), alla messa antropocentrica, logorroica e fracassona, di Santa Maria a Mare (Maiori, Costiera Amalfitana) penserebbe a due religioni diverse. Certo, Langone lo scrive, la messa è sempre valida, il sacramento pure anche se il prete è indegno, se ci sono canti strazianti, tamburelli, chitarre elettriche e altre amenità. Può cambiare solo il suo potenziale di conversione. La Guida, la prima del genere, è un censimento, una valutazione della messa, in particolare, e dell'arredamento delle chiese (sedie, candeliere). In una chiesa di frati francescani, Langone polemizza ricordando che il loro fondatore (S. Francesco) insegnò la genuflessione persino a una pecorella: "Quando nel corso della messa, veniva elevato il sacratissimo corpo di Cristo, essa si prostrava con le zampe piegate, come a rimproverare i distratti per la loro irriverenza ed invitare i devoti di Cristo ad un più intenso fervore verso il Sacramento". Molti credono che inginocchiarsi alla consacrazione è facoltativo, invece non è così. O credi nella Presenza Reale e allora ti inginocchi, o non credi e allora che cosa vieni in Chiesa a fare? "Nel Nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra (Lettera ai Filippesi, 2, 10). Nella Basilica di S. Giovanni in Laterano, dove non c'è uno straccio di inginocchiatoio, ma solo orribili sedie di plastica grigia, Langone ricorda anche che di solito ci si inginocchia se intorno si inginocchiano, si resta in piedi se intorno si resta in piedi. Questa a prescindere da comodità o scomodità. Scriveva Papa Ratzinger, prima di diventare papa: "L'incapacità a inginocchiarsi appare addirittura come l'essenza stessa del diabolico. Una fede o una liturgia che non conoscono più l'atto di inginocchiarsi, sono ammalate in un punto centrale". La Guida non entra in merito alle costruzioni delle chiese anche se facilmente si capisce che preferisce quelle che rispettano la tradizione, in particolare a croce greca. Si può pregare ovunque, ma la fede si fortifica meglio laddove l'edificio parla di Dio ancor prima che lo faccia il sacerdote. All'interno della chiesa, si cerca sempre come segno distintivo la Croce che dovrebbe essere sempre davanti all'altare maggiore, ben visibile allo sguardo del popolo radunato. Inoltre si bada al silenzio che è condizione prima di ogni azione sacra. La Guida critica aspramente l'uso dei tamburelli, delle chitarre elettriche, ci piacciono quando vogliamo ballare, non quando vogliamo pregare. C'è uno strumento per ogni momento e la messa non è il momento delle percussioni, ordigni dionisiaci che nell'ebrezza della possessione trascinano verso terra, non verso il cielo. Ai trambusti Langone preferisce il bell'organo a canne e magari il canto gregoriano. Questo non significa che l'autore della Guida sia un retrogrado reazionario che rifiuta i cambiamenti per partito preso, anzi è favorevole alle novità come i siti internet, è giusto che le parrocchie si dotino di questi ottimi strumenti, ma un sito deve essere fatto bene e costantemente aggiornato altrimenti si fa più bella figura non averlo. Sarebbe opportuno però che ci pensasse un giovane di medie competenze informatiche che voglia regalare a Gesù un paio d'ore al mese. I preti hanno troppo impegni. Infine riflessione personale: in una scheda Langone afferma che non bisogna meravigliarsi quando certe chiese sono snobbate o abbandonate dai fedeli, confido che mi è capitato quasi sempre frequentare altre chiese rispetto alla mia parrocchia. E' capitato in Sicilia, capita ora anche qui dove vivo, preferisco andare a messa a Milano nel tempio civico di S. Sebastiano in via Torino, dove si viene edificati dalle ottime omelie di don Maurizio, all'interno di una chiesa come Dio comanda.
(di Domenico Bonvegna)

02 dicembre 2010

Ho scritto al Presidente Napolitano per il suo commento sul suicidio di Monicelli

Il grado di libertà dell'atto di volontà con cui una persona si dà la morte non è misurabile, a meno che questa persona non sopravviva al suo gesto e si possa analizzare la situazione a posteriori. Ma se ciò non avviene, se l'atto suicida riesce, nessuno può arrogarsi il diritto di interpretare quel gesto: su quale base, se lui non era nemmeno presente al momento del dramma? Sarebbe meglio, molto meglio tacere. E se proprio si vuole parlare, sarebbe più opportuno porre domande sulla solitudine in cui quella persona è stata lasciata. La struttura sanitaria in cui era ricoverato esce assolta da quello che è accaduto? Pertanto, le parole del Presidente della Repubblica sono suonate come una giustificazione del suicidio e una assoluzione a priori di eventuali manchevolezze della struttura sanitaria.
Non posso rispettare l'azione compiuta da Monicelli, e non posso condividere la posizione di chi, come il Presidente della Repubblica, invoca tale rispetto, perché non credo affatto che il suo sia stato un gesto libero. Credo che una presenza affettuosa al suo fianco avrebbe potuto prevenire quel gesto. E anche perché tale rispetto può essere interpretato come giustificazione, e perciò come incoraggiamento al suicidio nei riguardi delle persone che si trovano in condizioni di difficoltà e di dolore. Il messaggio che dobbiamo mandare a tutte queste persone è la vicinanza, la solidarietà, la fraternità e il senso del nostro apprezzamento per la loro vita e la loro persona come cose preziose. Non un astratto rispetto che di fatto sminuisce il valore della vita umana.
(di Rodolfo Casadei- tratto da "Tempi" del 1/12/2010)