02 settembre 2010

I precedenti: da Arafat a Castro, la realpolitik fa chiudere un occhio

Arafat alla Camera, Fini da Milosevic, Scalfaro che stringe la mano sorridente a Castro, Prodi che non riceve il Dalai Lama per evitare le ire di Pechino sono solo alcune chicche della realpolitik all’italiana.
Non c’è solo il buon viso a cattivo gioco di Silvio Berlusconi di fronte alle pagliacciate in salsa islamica e non del colonnello Gheddafi, in cambio di contratti e quant’altro. Così fan tutti e anche peggio, per motivi più o meno confessabili, talvolta partigianeria, ma nella gran parte dei casi machiavellismo politico o interessi economici. E la lista degli ospiti discutibili, in nome della realpolitik o della realeconomik, è lunga.
Nel 1982 il compianto Giovanni Spadolini si oppose con tutte le forze all’arrivo in Italia di Yasser Arafat. Il presidente Sandro Pertini ci mise lo zampino e Arafat in divisa oliva, kefya a scacchi bianca e nera, cinturone della pistola al fianco parlò alla Camera dei deputati scortato da guardie del corpo armate fino ai denti.
In piena guerra fredda ambasciatori e governanti italiani strinsero le mani dei gerontocrati comunisti del Cremlino e delle loro pedine più o meno affidabili come Ceausescu in Romania, Honecker in Germania Est e Jaruzelski in Polonia. Tutti non certo esempi di democrazia, che però, soprattutto in Urss, garantivano contratti, a cominciare dalla Fiat. In confronto Alexander Lukashenko, padre-padrone della Bielorussia, che Berlusconi ha incontrato, è un santarellino. Per non parlare dell’ineffabile Mariano Rumor, che nel 1975 firmò il famigerato trattato di Osimo con la Jugoslavia di Josip Broz Tito, che aveva le mani sporche di sangue degli italiani infoibati. Non solo: in nome della realpolitik Osimo calava una pietra tombale sulle rivendicazioni di 250mila esuli istriani, fiumani e dalmati.
Proprio per l’impossibile obiettivo di avere indietro l’Istria e la Dalmazia, l’allora segretario del Movimento sociale, Gianfranco Fini, si recò a Belgrado il 2 agosto 1991 alla corte dello zar socialista dei serbi Slobodan Milosevic. La Jugoslavia aveva già cominciato ad esplodere. In seguito Slobo, che con l’Italia chiuderà l’affare Telekom Serbia, fu omaggiato da Lamberto Dini, Piero Fassino e altri. Nel 1999, quando la Nato decise di bombardare la Serbia, arrivò a Belgrado pure Umberto Bossi. Pochi anni dopo Milosevic finirà i suoi giorni dietro le sbarre de L’Aja accusato di crimini di guerra.
Con il vecchio Saddam Hussein eravamo pappa e ciccia per tutti gli anni ottanta, quando faceva la guerra all’Iran che costò un milione di morti. Gli affari andavano a gonfie vele, anche se alcune corvette ordinate alla Fincantieri le abbiamo potute consegnare all’Iraq solo poco tempo fa, perché nel frattempo Saddam si era inimicato gli americani. Roberto Formigoni ha cercato fino all’ultimo di dare una mano a Tareq Aziz, braccio destro del rais, per evitare l’invasione dell’Iraq.
Con l’Iran abbiamo rapporti economici importanti, a cominciare dal settore petrolifero, dai tempi dello Shah e di Enrico Mattei. Con gli ayatollah poco è cambiato su questo piano. Solo nel febbraio scorso l’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, ha annunciato che i vecchi contratti saranno onorati «però non ne facciamo e non ne faremo di nuovi». Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad è sbarcato a Roma, per il vertice Fao del 2008, assieme a personaggi come l’ottuagenario padre-padrone dello Zimbabwe, Robert Mugabe. Nonostante le polemiche Ahmadinejad ha riunito in un albergo di Roma decine di imprenditori e rappresentanti di banche e società importanti, secondo il motto pecunia non olet.
Quando di mezzo ci sono tanti soldi le rigidità dei regimi coinvolti passano spesso in secondo piano per «realeconomik». Nel 2007 il presidente del Consiglio, Romano Prodi, faceva sapere con una lettera che «precedenti ed inderogabili impegni internazionali» non gli permettevano di incontrare il Dalai Lama. In realtà in Italia il leader tibetano sembrava quasi un appestato a causa dei fulmini e saette che i cinesi lanciano a chiunque lo incontri. E delle ritorsioni in campo economico.
Invece non c’è nulla da guadagnare e quasi tutto da perdere nel dar credito a vetusti rivoluzionari trasformati in leader a vita in nome del socialismo, come Fidel Castro. Una curiosa foto nella galleria in rete del Quirinale mostra il sorriso smagliante del presidente Oscar Luigi Scalfaro, mentre stringe la mano al barbuto Fidel, a Roma, nel novembre del 1996.
(di Fausto Biloslavo- tratto da "Il Giornale" del 1/09/2010)

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