29 dicembre 2010

Death Panels


Domandiamoci senza pregiudizi che cosa significhi introdurre per regolamento l’uso di pagare i medici di stato affinché abbiano ogni anno un colloquio con i vecchi pazienti del programma americano Medicare, sul tema del come morire, del come rifiutare terapie di sostegno vitale indesiderate. Che vuol dire questo testamento in vita, sulla vita, consegnato al confessionale della sanità pubblica?
Gli avversari di Barack Obama dicono: death panels, comitati della morte. C’è enfasi in questo, e c’è in questo accento forte il dramma politico che ha portato alla eliminazione di questi protocolli dalla legge di riforma del sistema sanitario, per riproporli dal primo gennaio via regolamento, a sorpresa, a tradimento. Gente in buona fede, anche cattolici come Martini e Verzé e le ribelli suore americane, gente che arde di zelo per un compromesso apostolico con i tempi, pensa così: la medicina ha preso un posto ingente nella vita d’oggi, l’età media si è allungata, esiste un problema sociale, quello del protrarsi inutile delle cure o addirittura di accanimenti non desiderati, e bisogna risolverlo come si può, consacrando l’autonomia personale, l’autodeterminazione degli individui di fronte alla fine della loro vita, insomma il diritto di morire.
Qualche elemento di verità in questo modo di ragionare c’è, naturalmente. Siamo diversamente esposti, rispetto a tempi in cui il bios era un fondo di bottiglia misterioso, alla scienza medica, nel bene e nel male. E la libertà di determinarsi come si vuole ha fatto tali progressi che per molti, forse grandi maggioranze, è impensabile cederne anche solo una quota all’idea astratta, metafisica, che siamo una creatura umana, un intoccabile costrutto di anima e corpo che per la vita e per la morte dipende da Dio o da un rapporto insondabile con l’essere delle cose e della persona. Dipende cioè da una relazione che può essere interrotta in forza della nostra volontà privata, in un abbandono fiducioso nella zona grigia tra vita e non vita, ma che è irriducibile, in termini di diritto, di legge, di regolamento pubblico, alla decisione sovrana di ciascuno di noi o, peggio, della comunità che decide per noi sulla questione fatale del nulla.
Nel secolo scorso si era creduto che la battaglia finale sarebbe stata tra comunisti ed ex comunisti, lo diceva il vecchio e saggio scrittore Ignazio Silone. Invece con il nuovo secolo è sempre più chiaro che la resa dei conti sarà tra un secolarismo della specie più pervasiva e un cristianesimo eviscerato della sua virtualità normativa, privato della sua influenza sociale e politica e civile. Quel medico di un leader a suo modo cristiano come Obama che ogni anno, per regolamento, parlerà con milioni di vecchi americani di ogni ceppo, ispanici, neri, wasp, caraibici, polacchi, italiani, irlandesi e così via, è l’Ersatz, il sostituto sociologico e spirituale del prete confessore, e la nuova religione secolarista, religione culturale e ideologica senza rivelazione e senza la talare ma con un suo clero in càmice molto incisivo, questa nuova religione è la medicina federale: ti obbliga ad assicurarti ma al tempo stesso ti chiede di liberarti senza tante storie della tua vita calante per risparmiare sui costi inutili della salute pubblica, e ti confonde nella testa le due nozioni di salute e salvezza, bene e benessere. Con il pretesto libertario della tua autodeterminazione.
(di Giuliano Ferrara- tratto da "Il Foglio" del 28/12/2010)

27 dicembre 2010

Basta con la Messa creativa, in chiesa silenzio e preghiera


La liturgia cattolica vive «una certa crisi» e Benedetto XVI vuole dar vita a un nuovo movimento liturgico, che ripor­ti più sacralità e silenzio nella messa, e più attenzione alla bel­lezza nel canto, nella musica e nell'arte sacra. Il cardinale Anto­nio Cañizares Llovera, 65 anni, Prefetto della Congregazione del culto divino, che quando era vescovo in Spagna veniva chia­mato «il piccolo Ratzinger», è l'uomo al quale il Papa ha affida­to questo compito. In questa in­tervista al Giornale, il «mini­stro» della liturgia di Benedetto XVI rivela e spiega programmi e progetti.

Da cardinale, Joseph Ratzin­ger aveva lamentato una cer­ta fretta nella riforma liturgi­ca postconciliare. Qual è il suo giudizio?
«La riforma liturgica è stata re­alizzata con molta fretta. C'era­no ottime intenzioni e il deside­rio di applicare il Vaticano II. Ma c'è stata precipitazione. Non si è dato tempo e spazio suf­ficiente per accogliere e interio­rizzare gli insegnamenti del Concilio, di colpo si è cambiato il modo di celebrare. Ricordo be­ne la mentalità allora diffusa: bi­sognava cambiare, creare qual­cosa di nuovo. Quello che aveva­mo ricevuto, la tradizione, era vi­sta come un ostacolo. La rifor­ma è stata intesa come opera umana, molti pensavano che la Chiesa fosse opera delle nostre mani, invece che di Dio. Il rinno­vamento liturgico è stato visto come una ricerca di laboratorio, frutto dell'immaginazione e del­la creatività, la parola magica di allora».

Da cardinale Ratzinger ave­va auspicato una «riforma della riforma» liturgica, paro­le oggi impronunciabili persi­no in Vaticano. Appare però evidente che Benedetto XVI la desideri. Può parlarcene?
«Non so se si possa, o se con­venga, parlare di "riforma della riforma". Quello che vedo asso­lutamente necessario e urgen­te, secondo ciò che desidera il Papa, è dar vita a un nuovo, chia­ro e vigoroso movimento liturgi­co in tutta la Chiesa. Perché, co­me­spiega Benedetto XVI nel pri­mo volume della sua Opera Om­nia, nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa. Cristo è presente nella Chiesa attraverso i sacra­menti. Dio è il soggetto della li­turgia, non noi. La liturgia non è un'azione dell'uomo, ma è azio­ne di Dio».

Il Papa più che con le decisio­ni calate dall'alto, parla con l'esempio: come leggere i cambiamenti da lui introdot­ti nelle celebrazioni papali?
«Innanzitutto non deve esser­ci alcun dubbio sulla bontà del rinnovamento liturgico conci­liare, che ha portato grandi be­nefici nella vita della Chiesa, co­me la partecipazione più co­sciente e attiva dei fedeli e la pre­senza arricchita della Sacra Scrittura. Ma oltre a questi e altri benefici, non sono mancate del­le ombre, emerse negli anni suc­cessivi al Vaticano II: la liturgia, questo è un fatto, è stata "ferita" da deformazioni arbitrarie, pro­vocate anche dalla secolarizza­zione che purtroppo colpisce pure all'interno della Chiesa. Di conseguenza, in tante celebra­zioni, non si pone più al centro Dio, ma l'uomo e il suo protago­nismo, la sua azione creativa, il ruolo principale dato all'assem­blea. Il rinnovamento concilia­re è stato inteso come una rottu­ra e non come sviluppo organi­co della tradizione. Dobbiamo ravvivare lo spirito della liturgia e per questo sono significativi i gesti introdotti nelle liturgie del Papa: l'orientamento dell'azio­ne liturgica, la croce al centro dell'altare, la comunione in gi­nocchio, il canto gregoriano, lo spazio per il silenzio, la bellezza nell'arte sacra. È anche necessa­ri­o e urgente promuovere l'ado­razione eucaristica: di fronte al­la presenza reale del Signore non si può che stare in adorazio­ne».

Quando si parla di un recupe­ro della dimensione del sa­cro c'è sempre chi presenta tutto questo come un sempli­ce ritorno al passato, frutto di nostalgia. Come rispon­de?
«La perdita del senso del sa­cro, del Mistero, di Dio, è una delle perdite più gravi di conse­guenze per un vero umanesi­mo. Chi pensa che ravvivare, re­cuperare e rafforzare lo spirito della liturgia, e la verità della ce­lebrazione, sia un semplice ritor­no a un passato superato, igno­ra la verità delle cose. Porre la li­turgia al centro della vita della Chiesa non è affatto nostalgico, ma al contrario è la garanzia di essere in cammino verso il futu­ro».

Come giudica lo stato della li­turgia cattolica nel mondo?
«Di fronte al rischio della routi­ne, di fronte ad alcune confusio­ni, alla povertà e alla banalità del canto e della musica sacra, si può dire che vi sia una certa cri­si. Per questo è urgente un nuo­vo movimento liturgico. Bene­detto XVI indicando l'esempio di san Francesco d'Assisi, molto devoto al Santissimo Sacramen­to, ha spiegato che il vero rifor­matore è qualcuno che obbedi­sce alla fede: non si muove in modo arbitrario e non si arroga alcuna discrezionalità sul rito. Non è il padrone ma il custode del tesoro istituito dal Signore e consegnato a noi. Il Papa chiede dunque alla nostra Congrega­zione di promuovere un rinno­vamento conforme al Vaticano II, in sintonia con la tradizione liturgica della Chiesa, senza di­menticare la norma conciliare che prescrive di non introdurre innovazioni se non quando lo ri­ch­ieda una vera e accertata utili­tà per la Chiesa, con l'avverten­za che le nuove forme, in ogni caso, devono scaturire organica­mente da quelle già esistenti».

Che cosa intendete fare co­me Congregazione?
«Dobbiamo considerare il rin­novamento liturgico secondo l'ermeneutica della continuità nella riforma indicata da Bene­detto XVI per leggere il Concilio. E per far questo bisogna supera­re la tendenza a "congelare" lo stato attuale della riforma po­stconciliare, in un modo che non rende giustizia allo svilup­po organico della liturgia della Chiesa. Stiamo tentando di por­tare avanti un grande impegno nella formazione di sacerdoti, seminaristi, consacrati e fedeli laici, per favorire la comprensio­ne del ver­o significato delle cele­brazioni della Chiesa. Ciò richie­de un'adeguata e ampia istruzio­ne, vigilanza e fedeltà nei riti e un'autentica educazione per vi­verli pienamente. Questo impe­gn­o sarà accompagnato dalla re­visione e dall'aggiornamento dei testi introduttivi alle diverse celebrazioni (prenotanda). Sia­mo anche coscienti che dare im­pulso a questo movimento non sarà possibile senza un rinnova­mento della pastorale dell'ini­ziazione cristiana».

Una prospettiva che andreb­be applicata anche all'arte e alla musica...
«Il nuovo movimento liturgi­co dovrà far scoprire la bellezza della liturgia. Perciò apriremo una nuova sezione della nostra Congregazione dedicata ad "Ar­te e musica sacra" al servizio del­la liturgia. Ciò ci porterà a offrire quanto prima criteri e orienta­menti per l'arte, il canto e la mu­sica sacri. Come pure pensiamo di offrire prima possibile criteri e orientamenti per la predicazio­ne».

Nelle chiese spariscono gli in­ginocchiatoi, la messa talvol­ta è ancora uno spazio aperto alla creatività, si tagliano per­sino le parti più sacre del ca­none: come invertire questa tendenza?
«La vigilanza della Chiesa è fondamentale e non deve esse­re considerata come qualcosa di inquisitorio o repressivo, ma un servizio. In ogni caso dobbia­mo rendere tutti coscienti del­l'esigenza, non solo dei diritti dei fedeli, ma anche del "diritto di Dio"».

Esiste anche il rischio oppo­sto, cioè quello di credere che la sacralità della liturgia dipenda dalla ricchezza dei paramenti: una posizione frutto di estetismo che sem­bra ignorare il cuore della li­turgia...
«La bellezza è fondamentale, ma è qualcosa di ben diverso da un'estetismo vuoto, formalista e sterile, nel quale invece talvol­ta si cade. Esiste il rischio di cre­dere che la bellezza e la sacralità del liturgia dipendano dalla ric­chezza o dall'antichità dei para­menti. Ci vuole una buona for­mazione e una buona catechesi basata sul Catechismo della Chiesa cattolica, evitando an­che il rischio opposto, quello della banalizzazione, e agendo con decisione ed energia quan­do si ricorre a usanze che hanno avuto il loro senso nel passato ma oggi non ce l'hanno o non aiutano in alcun modo la verità della celebrazione».

Può dare qualche indicazio­ne concreta su che cosa po­trebbe cambiare nella litur­gia?
«Più che pensare a cambia­menti, dobbiamo impegnarci nel ravvivare e promuovere un nuovo movimento liturgico, se­guendo l'insegnamento di Bene­detto XVI, e ravvivare il senso del sacro e del Mistero, metten­do Dio al centro di tutto. Dobbia­mo dare impulso all'adorazio­ne eucaristica, rinnovare e mi­gliorare il canto liturgico, colti­vare il silenzio, dare più spazio alla meditazione. Da questo sca­turiranno i cambiamenti...».

(di Andrea Tornielli- tratto da "Il Giornale")

23 dicembre 2010

Il prodigio che tutti aspettiamo


«Tutta la mia vita è sempre stata attraversata da un filo conduttore, questo: il Cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti. In definitiva un’esistenza vissuta sempre e soltanto “contro” sarebbe insopportabile» (Luce del mondo, p. 27). Queste parole di Benedetto XVI ci lanciano una sfida: che cosa significa essere cristiani oggi? Continuare a credere semplicemente per tradizione, devozione o abitudine, ritirandosi nel proprio guscio, non è all’altezza della sfida. Allo stesso modo, reagire con forza e andare contro per recuperare il terreno perduto è insufficiente, il Papa dice addirittura che è «insopportabile». L’una e l’altra strada − ritirarsi dal mondo o essere contro − non sono capaci, in fondo, di suscitare interesse per il cristianesimo, perché nessuna delle due rispetta quello che sarà sempre il canone dell’annuncio cristiano: il Vangelo. Gesù si è posto nel mondo con una capacità di attrarre che ha affascinato gli uomini del suo tempo. Come dice Péguy: «Egli non perse i suoi anni a gemere e interpellare la cattiveria dei tempi. Egli tagliò corto… Facendo il cristianesimo». Cristo ha introdotto nella storia una presenza umana così affascinante che chiunque vi si imbatteva doveva prenderla in considerazione. Per rifiutarla o per accettarla. Non ha lasciato indifferente nessuno.
Oggi ci troviamo tutti di fronte a una «crisi dell’umano», che si documenta come stanchezza e disinteresse verso la realtà e che coinvolge tutti gli ambiti che hanno a che fare con la vita della gente. È una disgrazia per tutti, infatti, che le persone non si mettano in gioco con la loro ragione e la loro libertà. E proprio in questo momento la Chiesa ha davanti a sé un’avventura affascinante, la stessa delle origini: testimoniare che c’è qualcosa in grado di risvegliare e suscitare un interesse vero. «Anche il mio cuore aspetta, / alla luce guardando ed alla vita, / altro prodigio della primavera». Tutti noi, come il poeta Antonio Machado, aspettiamo il miracolo della primavera, in cui vedere compiersi la nostra vita. E se qualcuno dirà, ancora col poeta, che è un sogno, perché lo aspettiamo? Perché questa attesa ci costituisce nell’intimo, come scrive Benedetto XVI: «L’uomo aspira ad una gioia senza fine, vuole godere oltre ogni limite, anela all’infinito» (Luce del mondo, p. 95). Ma l’uomo può decadere, il mondo può cercare di scalzare questo desiderio dell’infinito minimizzandolo; può perfino prenderlo in giro offrendo qualcosa che attira per qualche tempo, ma che non dura, e alla fine lascia solo più insoddisfatti e più scettici. Ora, la prova della verità di ciò che affascina e risveglia un interesse è che deve durare. Ma anche le cose più belle – lo vediamo quando si ama una persona o quando si intraprende un nuovo lavoro – vengono meno. Il problema della vita, allora, è se esiste qualcosa che dura.
Il cristianesimo ha la pretesa – perché la sua origine non è umana, anche se si può vedere nei volti degli uomini che lo hanno incontrato – di portare l’unica risposta in grado di durare nel tempo e nell’eternità. Però un cristianesimo ridotto non è in grado di fare questo. Sappiamo per esperienza che esiste un modo astratto di parlare della fede che non suscita la minima curiosità. Se il cristianesimo non viene rispettato nella sua natura, così come è comparso nella storia, non può mettere radici nel cuore.Il cristianesimo è sempre messo alla prova di fronte al desiderio del cuore, e non se ne può liberare: è Cristo stesso che si è sottoposto a questa prova. L’aspetto affascinante è che Dio, spogliandosi del Suo potere, si è fatto uomo per rispettare la dignità e la libertà di ciascuno. Incarnandosi, è come se avesse detto all’uomo: «Guarda un po’ se, vivendo a contatto con me, trovi qualcosa di interessante che rende la tua vita più piena, più grande, più felice. Quello che tu non sei capace di ottenere con i tuoi sforzi, lo puoi ottenere se mi segui». È stato così fin dall’inizio. Quando i due primi discepoli domandano: «Dove abiti?», Egli risponde: «Venite e vedrete». La sua semplicità è disarmante. Dio si affida al giudizio dei primi due che Lo incontrano. L’uomo non può evitare di paragonare continuamente ciò che accade con le sue esigenze fondamentali.
Qualcuno potrebbe obiettare che all’epoca di Gesù si vedevano i miracoli, ma oggi non è più tempo di prodigi. Non è così, perché questa esperienza continua ad avere luogo, come il primo giorno: quando incontri persone che risvegliano in te un interesse e un’attrattiva tali che ti obbligano a fare i conti con quello che ti è accaduto. Come dice il Papa, «Dio non si impone. […] La sua esistenza si manifesta in un incontro, che penetra nella più intima profondità dell’uomo» (Luce del mondo, p. 240).
Alcuni anni fa un mio amico è andato a studiare arabo a Il Cairo. Ha incontrato un professore musulmano. L’incontro si sarebbe potuto svolgere secondo gli stereotipi dell’uno e dell’altro. Ma è accaduta una cosa inattesa: sono diventati amici. Il musulmano ha domandato al mio amico perché era cristiano, e questi lo ha invitato in Italia, dove ha conosciuto il Meeting di Rimini. Trascinato dall’incontro con una realtà umana diversa, ha voluto realizzare il Meeting de Il Cairo, coinvolgendo molti giovani egiziani, musulmani e cristiani.
Di recente, a Mosca, ho conosciuto persone che fino a poco tempo fa non avevano niente a che fare con la fede. L’hanno scoperta incontrando dei cristiani che le avevano incuriosite. Alcune erano battezzate nella Chiesa ortodossa e si sono interessate al cristianesimo – cosa che non avevano mai fatto prima – grazie ad amici che lo vivevano con intensità e pienezza.
Non sono storie del passato, ma qualcosa che accade ora, nel presente.
Nella sua recente visita in Spagna, Benedetto XVI ha invitato a un dialogo tra laicità e fede. E come lo ha fatto? Indicando una presenza, un testimone, Gaudì, che con la Sagrada Familia «è stato capace di creare […] uno spazio di bellezza, di fede e di speranza, che conduce l’uomo all’incontro con colui che è la verità e la bellezza stessa». Il Papa ha sfidato tutti rendendo contemporaneo lo sguardo di Cristo e indicando l’esperienza nuova che Egli immette nella vita: chiunque può interessarsene o rifiutarla. Quando Benedetto XVI ci chiama alla conversione ci sta dicendo che per testimoniare Cristo, per farci «trasparenza di Cristo per il mondo», dobbiamo percorrere un cammino umano fino a scoprire la pertinenza della fede alle esigenze della nostra vita. Non so se qualche cattolico si può sentire escluso dalla chiamata del Papa. Io no.

(di don Julian Carron)

22 dicembre 2010

Gerry Scotti e la nuova evangelizzazione


Domenica sera stavo guardando “il milionario”, il quiz televisivo di successo condotto dal bravo Gerry Scotti, quando al concorrente, un ragazzo di Ponte Lambro, è stata rivolta una domanda di cultura religiosa. Gli è stato chiesto a quale sacramento corrispondesse la “penitenza” o “riconciliazione”.
Le quattro possibili risposte erano: battesimo, cresima, confessione e comunione. Il ragazzo è rimasto di stucco. Non frequentava i sacramenti da parecchio. Ha dunque pensato di affidarsi all’aiuto del pubblico, uno degli aiuti a cui si può ricorrere per una volta soltanto nel corso della gara. Gli spettatori del “milionario” presenti in studio, pubblico vario ed eterogeneo, hanno quindi usato il loro personale telecomando per suggerire al giovane la risposta esatta.
Con una certa sorpresa, ben l’81 per cento degli spettatori ha sbagliato, indicando sacramenti diversi dalla confessione, che è stata scelta soltanto dal 19 per cento dei votanti. Anche Gerry Scotti, pur con il suo fine umorismo, non ha nascosto un certo sconcerto. Se qualcuno volesse la prova di che cosa significhino le parole secolarizzazione e scristianizzazione, basta che osservi esempi come questo. Esempi che peraltro dimostrano anche il fallimento di certa catechesi moderna, che sembra non aver lasciato segno alcuno.
Il ragazzo di Ponte Lambro, facendo un sforzo di memoria, alla fine ha ritenuto che “confessione” fosse la parola che aveva più legami con “penitenza” e “riconciliazione”, e così, nonostante il pubblico, ha risposto in modo corretto. Episodi del genere permettono di comprendere meglio, credo, quell’urgenza della nuova evangelizzazione che ha spinto Benedetto XVI a istituire un apposito nuovo dicastero appositamente dedicato a questo compito.

(di Andrea Tornielli)

20 dicembre 2010

La rabbia e la speranza


«Nascondervi dietro a un dito dicendo che è colpa del black bloc non serve a nulla. Sia­mo noi, ragazzi normali, senza un futuro, pieni di rabbia», scrive un ragazzo a Roberto Saviano. «Mia fi­glia, trent’anni, precaria e nessun sogno», scrive una 'mamma arrabbiata' a un quotidiano. Rabbia, dopo le piazze del 14 dicembre, è la parola più diffusa per raccontare una generazione. Che ha guardato la guer­riglia senza parteciparvi, ma anche, non pochi, sen­za indignarsene; come fosse il rigurgito di una fru­strazione coralmente avvertita.
Non che non ne abbiano ragioni. Questi sono i ragazzi del precariato infinito, lieti, a trent’anni, di un con­tratto che ne dura tre; e ci si chiede come ci si fa una famiglia, o una casa, con prospettive così brevi. Figli generati dalla generazione del posto fisso e spesso supergarantito, si affacciano al lavoro in tempi di cri­si, mentre la globalizzazione del mercato abbatte co­me una falce i privilegi che credevamo intoccabili. Cresciuti nel benessere, educati al consumismo, in­travedono un orizzonte in implosione, dove saranno più poveri dei loro genitori. Si sentono tratti in in­ganno: la vita è più dura di quanto era loro stato fat­to credere, nell’educazione spesso troppo concilian­te, eredità del motto sessantottino 'vietato vietare', filtrata in tante famiglie. Sono arrabbiati perché assi­stono a un deterioramento vistoso della politica, do­ve il 'bene comune' pare pura retorica. Sono arrab­biati, ancora, in molti, benché difficilmente lo dica­no, per i privati travagli di tante loro famiglie, divise, abbandonate, o per le grandi solitudini di figli unici cresciuti davanti alla tv.
Eredi inconsapevoli di un nichilismo respirato nell’a­ria: non trasmesso dai padri il filo di un senso della vita, di una positiva speranza, che aveva sostenuto ge­nerazioni ben più povere e materialmente travaglia­te. Dunque, le ragioni di rabbia non mancano. Ma, da­vanti al ritornare su troppi media della parola 'rab­bia', non ci si può non chiedere dove porti, la rabbia. Dove si va se, davvero, si ha solo rabbia addosso? An­che in una casa il vivere con la maschera dell’astio, della rivendicazione, della pretesa porta al disastro. L’avere anche oggettive ragioni di rancore, poi, pone in un rischio: sentirsi vittime, 'giusti', anime a posto, e solo l’altro colpevole di tutti i nostri mali. È il senti­mento che legittima le armi, quando qualcuno si con­vince che un mondo giusto lo si debba imporre.
La 'rabbia' coltivata, vezzeggiata, è una strada cie­ca. Viene da domandarsi però: avevano forse meno ragioni di rabbia i ventenni del dopoguerra, reduci da un massacro, tornati in città distrutte? Quei ragazzi avevano, però, anche qualcosa di molto grande: il de­siderio di ricostruire un’altra Italia. Ciò che permise, anche nella fame e nel lutto, di portare via le mace­rie e ricominciare. Quella generazione, che per i ra­gazzi di oggi è quella dei nonni, era cresciuta dentro l’humus di grandi speranze: che fossero la fede e l’i­dea cristiana di una società equa o il socialismo, era­no cose che impostavano la vita. Vivevano, comun­que, certi che non si vivesse per sé soli; sicuri di un senso del continuare nei figli, anche quando emi­gravano a lavorare in città lontane e straniere; in mo­di diversi, erano abitati da un gran desiderio di vita.
L’ultimo rapporto del Censis parla di un «calo del de­siderio» in Italia, del desiderio di fare, costruire, ini­ziare. (Quel desiderio, quella fiducia, che per i cri­stiani è la speranza). Non è anche per una crisi di spe­ranza che i ragazzi si sentono traditi? Se una genera­zione non ha tramandato questo desiderio, ha man­cato di molto. E però la rabbia non basta. Occorre ri­cominciare, e occorre che ricomincino i figli.
Come? Sentite questo dialogo fra due ragazzi del­l’anno 1942, forse il più oscuro della guerra. Lei è Etty Hillesum, giovane ebrea che morirà a Auschwitz. Lui è un amico comunista. «Vedi, Klaas, non si combina niente con l’odio. (..) Ognuno deve distruggere in sé stesso ciò che vorrebbe distruggere negli altri. Ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende più inospitale». E Klaas, annota la Hillesum nel suo
Diario, «Da arrabbiato militante di classe ha replica­to: ma questo, sarebbe di nuovo cristianesimo! E io, divertita da tanto smarrimento: certo, cristianesimo. Perché poi no?».

(di Marina Corradi- tratto da "Avvenire")

15 dicembre 2010

L'incanaglimento della politica

Chi ha organizzato la canaglia squadrista contro il Parlamento? Chi ha promosso i suoi slogan, oltre che i suoi pullman? Chi ha creato lo stato emotivo teppistico per un attacco a freddo alla vita democratica, mandando allo sbaraglio giovanotti attempati e carichi di libidine violenta?Queste sono le domande da farsi in queste ore. E le risposte non sono poi così difficili. I responsabili della guerriglia urbana, che per un miracolo non ha fatto vittime, e che si è accanita contro i simboli del vivere civile nella capitale della Repubblica, sono noti. Una sinistra imbevuta ormai di bolsa ma aggressiva retorica anti-istituzionale, sulla scia di un ex poliziotto dalla vita difficile che lasciò tanti anni fa per una ambigua fuga verso la politica la magistratura, dopo aver contribuito in modo ancor oggi misterioso alla destabilizzazione della Repubblica dei partiti. E una borghesia priva di senno e di potere coesivo, che ha approntato il clima attraverso i suoi giornali, con una speciale menzione per la performance allarmistica e incitatoria del Corriere della Sera, che fingeva di scongiurare un clima giottino nel momento in cui lo fomentava tra le righe.Sotto il miserabile pretesto della “compravendita” di parlamentari si è scatenata una campagna di qualunquismo becero e di odio contro le istituzioni, e l’anno chiamata “sfiducia dal basso” o “faremo l’inferno se il governo non cade”. Una performance di sordido cinismo dalla quale la sinistra e i borghesi decaduti di un establishment intollerante e ambiguo non si risolleveranno tanto presto. Soprattutto se la risposta della maggioranza di governo eletta e confermata da un voto delle Camere sarà serena, ferma ma lucida, e se ai toni della reciproca delegittimazione faziosa, generatrice di violenza, subentreranno gli argomenti della buona politica, da una parte e dall’altra. Ora, di fronte a questa precipitazione nell’irrazionale e nel violento della pseudocampagna antipopulista, i cittadini si aspettano un intervento coesivo, a tutela della Costituzione e delle sue regole, e a censura di una degenerazione della politica in ribalderia, del capo dello stato. Il presidente della Camera deve cambiare tono o veste: un leader politico che assume un ruolo di garanzia modula il suo intervento sulla scena pubblica, non può essere il capo di una fazione antigovernativa aggressiva e militante. A questo punto è dovere della maggioranza assumere su di sé la questione delle garanzie e delle regole del gioco democratico-liberale, e non mollare finché non sia stato ristabilito un livello minimo di decenza e di rispetto.
(di Giuliano Ferrara- tratto da "Il Foglio")

12 dicembre 2010

Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell'uomo

Crisi sociale, economica e politica. Alla fine di questo 2010 tutti siamo presi dallo sconcerto. Come ha detto di recente il cardinale Bagnasco, «siamo angustiati per l’Italia che scorgiamo come inceppata nei suoi meccanismi decisionali, mentre il Paese appare attonito e guarda disorientato». Perché questa crisi ci trova così disarmati, al punto che non riusciamo neanche a metterci d’accordo per affrontarla, pur sentendone l’urgenza come non mai?

A sorpresa il Rapporto Censis 2010 ha individuato la natura della crisi in un «calo del desiderio» che si manifesta in ogni aspetto della vita. Abbiamo meno voglia di costruire, di crescere, di cercare la felicità. A questo fatto andrebbe attribuita la responsabilità delle «evidenti manifestazioni di fragilità sia personali sia di massa, comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattivi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro». Come mai, se siamo stati in grado di raggiungere importanti obiettivi nel passato (casa, lavoro, sviluppo…), adesso «siamo una società pericolosamente segnata dal vuoto» e a un ciclo storico pieno di interesse e voglia di fare ne segue un altro segnato dal suo annullamento?

Tutto questo ci mostra che la crisi è sì sociale, economica e politica, ma è soprattutto antropologica perché riguarda la concezione stessa della persona, della natura del suo desiderio, del suo rapporto con la realtà. Ci eravamo illusi che il desiderio si sarebbe mantenuto in vita da solo o addirittura che sarebbe stato più vivo nella nuova situazione di benessere raggiunto. L’esperienza ci mostra, invece, che il desiderio può appiattirsi se non trova un oggetto all’altezza delle sue esigenze. Ci ritroviamo così tutti «sazi e disperati». «Nell’appiattimento del desiderio ha origine lo smarrimento dei giovani e il cinismo degli adulti; e nella astenia generale l’alternativa qual è? Un volontarismo senza respiro e senza orizzonte, senza genialità e senza spazio, e un moralismo d’appoggio allo Stato come ultima fonte di consistenza per il flusso umano», come disse don Giussani ad Assago nel 1987.

Venticinque anni dopo vediamo che entrambe queste risposte − volontarismo individualista e speranza statalista- non sono state in grado di darci la consistenza auspicata e ci troviamo ad affrontare la crisi più disarmati, più fragili che in passato. Paradossalmente, i nostri nonni e genitori erano umanamente meglio attrezzati per affrontare simili sfide. Il Censis centra di nuovo il bersaglio quando identifica la vera urgenza di questo momento storico: «Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare una società troppo appagata e appiattita ». Ma chi o che cosa può ridestare il desiderio? È questo il problema culturale della nostra epoca. Con esso sono costretti a misurarsi tutti coloro che hanno qualcosa da dire per uscire dalla crisi: partiti, associazioni, sindacati, insegnanti. Non basterà più una risposta ideologica, perché di tutti i progetti abbiamo visto il fallimento. Saremo perciò costretti a testimoniare un’esperienza.

Anche la Chiesa, il cui contributo non potrà limitarsi a offrire un riparo assistenziale per le mancanze altrui, dovrà mostrare l’autenticità della sua pretesa di avere qualcosa in più da offrire. Come ha ricordato Benedetto XVI, «il contributo dei cristiani è decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà». Dovrà mostrare che Cristo è così presente da essere in grado di ridestare la persona − e quindi tutto il suo desiderio − fino al punto di non farla dipendere totalmente dalle congiunture storiche. Come? Attraverso la presenza di persone che documentano un’umanità diversa in tutti i campi della vita sociale: scuola e università, lavoro e imprenditoria, fino alla politica e all’impegno nelle istituzioni. Persone che non si sentono condannate alla delusione e allo sconcerto, ma vivono all’altezza dei loro desideri perché riconoscono presente la risposta.
Possiamo sperare di uscire dalla drammatica situazione attuale se tutti − compresi i governanti che oggi hanno la difficile responsabilità di guidare il Paese attraverso questa profonda crisi − decidiamo di essere veramente ragionevoli sottomettendo la ragione all’esperienza, se cioè, liberandoci da ogni presunzione ideologica, siamo disponibili a riconoscere qualcosa che nella realtà già funziona. Sostenere chi, nella vita sociale e politica, non si è rassegnato a una misura ridotta del proprio desiderio e per questo lavora e costruisce mosso da una passione per l’uomo, è il primo contributo che possiamo dare al bene di tutti.

Comunione e Liberazione

08 dicembre 2010

Siamo fatti per donare

C’è qualcosa di nuovo nell’aria, anzi di antico. Un fenomeno consueto ma che ha connotati nuovi, a cui bisogna trovare un nome nuovo. Intendo quella u­suale eccitazione che sale piano in questi giorni e riguarda: i regali di Natale. Ma for­se bisognerà trovare dei nomi nuovi. Per­ché le cose cambiano. E se pur occhieg­giano da vetrine e spot i soliti inviti, le 'cla­morose' offerte, i 'mai visti' sconti e le 'sensazionali' proposte, c’è qualcosa di nuovo nell’aria. La solita bella eccitazio­ne si sta forse venando di una pondera­tezza nuova. Insomma, è come se la nor­male, abituale eccitazione di pensare a co­sa regalare a figli amici parenti, fosse abi­tata da una nuova inquietudine, da un so­spetto, o meglio da una domanda.
Mentre si comincia a dare un’occhiata, ancora senza troppo impegno, a vetrine e promozioni, mentre si fanno i primi sva­gati sondaggi su desideri e gusti, un pen­siero rintocca nel profondo: ma cosa ha davvero senso regalare? Certo, la crisi ci ha insegnato a misurare con altra attenzio­ne il denaro, a valutare con più senso cri­tico il valore vero di oggetti, di beni che a volte beni veri e propri non sono, ma sfi­zi, lussi piccoli o grandi, e a riconoscere come superfluo quel che ieri ci pareva ne­cessario. Ma non è solo una sorta di 'com­plesso morale' determinato dalle notizie sulla crisi e dalla realtà di minori risorse a muovere questa strana cosa nuova e an­tica che chiamerei 'eccitazione pensosa' al regalo. Credo che ci sia qualcosa di più profondo. Come se la circostanza della crisi avesse almeno in parte aiutato a met­tere a fuoco meglio anche il valore del far­si regali. Da un lato, infatti, il gesto del donare qual­cosa sfugge a qualsiasi calcolo. È bello fa­re doni anche se si ha poco. Anche se le ri­sorse diminuiscono. Donare è un atto non superfluo. Si può rinunciare a parecchie cose, ma non a donare. Perché fa parte della nostra natura umana. Un uomo che non dona è diventato meno uomo. Nella gratuità 'assurda' di fare un regalo anche quando sono aumentati i nostri bisogni, nella gratuità che va contro ogni logica di tornaconto pur in un momento in cui si devono più attentamente fare i conti, ri­siede un barlume di vero intorno alla no­stra natura: l’uomo è fatto per donare, per donarsi. C’è un impeto positivo che fa par­te della nostra natura, prima e sopra ogni altro. Questo barlume di verità – così pic­colo ma evidente e tenace – può illumi­nare non solo il piccolo e breve episodio del periodo dei regali di Natale, ma po­trebbe indicare qualcosa di importante a riguardo della vita sociale.
Occorre scommettere su questo indirizzo positivo della nostra natura. Lo stesso su cui si fondano tante iniziative di valore so­ciale pubblico per tutti, nei campi del­l’assistenza e dell’educazione e in altri set­tori. Sul fatto che l’uomo è un essere che dona, si può fondare una visione della so­cietà e della sua organizzazione non più improntata al sospetto e alla mortifica­zione burocratica e impositiva della so­cietà. Dall’altro lato, questa eccitazione pensosa che ci prende nel periodo di Na­tale è una sottolineatura del bene che so­no i legami, le relazioni che compongono concretamente ed esistenzialmente la vi­ta di una persona. L’uomo è un essere che dona e ha legami. Il fatto che tali legami siano oggetto di at­tenzione particolare, di scambio di doni, ci fa vedere come la risorsa principale del­la nostra vita (anche in un’epoca di crisi) non stia nella chiusura egoistica, pauro­sa e calcolatrice in termini di diritti e do­veri. Si ha vera società intorno non al­l’uomo che come una monade isolata pensa a se stesso, misurando o inventan­do bisogni e diritti in astratto, ma alla per­sona come nodo di relazioni viventi, nel­le quali si evidenziano non solo potenti indicazioni della natura, ma anche limiti e rispetto.
L’uomo che dona e non è fatto per la so­litudine è il regalo di Natale che tutti pos­siamo ricevere mentre iniziamo a pensa­re quali regali belli fare, ma belli davvero, siano essi piccole cose graziose o beni che vogliamo restino come nostra eredità.
(di Davide Rondoni- tratto da "Avvenire")

05 dicembre 2010

Basta con le Messe in libertà


La recente esortazione post-sinodale la "Verbum Domini" di Benedetto XVI, è stata frettolosamente presentata dalla stampa come un richiamo del Papa contro le "inutili divagazioni" nelle omelie. Però nelle duecento pagine del documento papale, datato 30 settembre 2010 e reso pubblico il successivo 11 novembre, il Papa non si rivolge solo ai sacerdoti, alla loro grande responsabilità, soprattutto quando stanno celebrando l'eucarestia: "Benedetto XVI non si rivolge solo agli specialisti di esegesi biblica, - scrive Massimo Introvigne, direttore del Cesnur- Dal momento che la Parola di Dio è al centro di tutta la vita cristiana, anzi al centro del cosmo e della storia, l'esortazione apostolica è occasione per un'ampia ricognizione che parte dalla Bibbia ma si estende al rapporto tra fede e ragione, alla cultura, alla missione, all'instaurazione dell'ordine temporale e perfino all'arte e a Internet. Una particolare attenzione è dedicata all'interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II". (Massimo Introvigne, Il Papa, il Vaticano II e la parola di Dio, Cesnur. org). Il Papa, nell'esortazione, raccomanda che le omelie, non devono essere "generiche ed astratte, che occultino la semplicità della Parola di Dio (…) che rischiano di attirare l'attenzione sul predicatore piuttosto che al cuore del messaggio evangelico. Per il Papa, "deve risultare chiaro ai fedeli che ciò che sta a cuore al predicatore è mostrare Cristo, che deve essere al centro di ogni omelia. Per questo occorre che i predicatori abbiano confidenza e contatto assiduo con il testo sacro; si preparino per l'omelia nella meditazione e nella preghiera, affinché predichino con convinzione e passione". Comunque le raccomandazioni del Pontefice sulla cura delle celebrazioni eucaristiche, sono importanti, perché esiste tra i fedeli un certo malessere contro il far west delle messe, come si può dedurre da due libri pubblicati recentemente.
In questi giorni in libreria si può trovare un volume del teologo don Nicola Bux, "Come andare a Messa e non perdere la fede", Piemme, pubblica tra l'altro anche i consigli ai predicatori di uno scrittore e di un giornalista che sa farsi ascoltare. Messori consiglia al prete di predicare secondo queste tre regole auree del giornalismo: semplificare, personalizzare, drammatizzare.
Benedetto XVI indica le sue, a proposito delle omelie: "Che cosa dicono le letture proclamate? Che cosa dicono a me personalmente? Che cosa devo dire alla comunità, tenendo conto della sua situazione concreta?". Una particolare attenzione il Papa la chiede anche nei canti che accompagnano la celebrazione, "favorendo" quelli di "chiara ispirazione biblica". In particolare il Pontefice, suggerisce di "valorizzare quei canti che la tradizione della Chiesa ci ha consegnato (...)Penso in particolare all'importanza del canto gregoriano". L' altro libro è uscito l'anno scorso, una inconsueta e significativa "Guida alle messe", sottotitolo: quelle da non perdere: dove e perché, scritta da Camillo Langone, pubblicata dalla laica Mondadori. Chissà se il Papa nel preparare la Verbum Domini, ha dato un'occhiata a queste pubblicazioni.
Langone che è editorialista de Il Foglio, Il Giornale e Panorama, nel libro recensisce (brevi schede) circa 200 delle messe migliori o peggiori d'Italia, un viaggio alla ricerca della Messa come Dio comanda.
L'autore, non avendo il dono dell'ubiquità, per realizzare la Guida, è stato aiutato da molti amici collaboratori, molti appartenenti all'associazionismo cattolico tra il più qualificato. Langone critica e polemizza con certi ambienti ecclesiastici per il degrado liturgico che ha preso il sopravvento dopo le cosiddette aperture del Concilio Vaticano II. Ma le messe non sono tutte uguali? Si chiede Langone. E' la tipica obiezione di chi a messa c'è stato l'ultima volta quando aveva quattordici anni, oppure di chi da quattordici anni frequenta la stessa parrocchia, e si è convinto che il mondo finisca lì.
E invece le messe sono tutte diverse. Chi passasse senza adeguata preparazione dalla messa teocentrica, lunghi silenzi vibranti di sacro, di Santa Maria della Pietà (Bologna), alla messa antropocentrica, logorroica e fracassona, di Santa Maria a Mare (Maiori, Costiera Amalfitana) penserebbe a due religioni diverse. Certo, Langone lo scrive, la messa è sempre valida, il sacramento pure anche se il prete è indegno, se ci sono canti strazianti, tamburelli, chitarre elettriche e altre amenità. Può cambiare solo il suo potenziale di conversione. La Guida, la prima del genere, è un censimento, una valutazione della messa, in particolare, e dell'arredamento delle chiese (sedie, candeliere). In una chiesa di frati francescani, Langone polemizza ricordando che il loro fondatore (S. Francesco) insegnò la genuflessione persino a una pecorella: "Quando nel corso della messa, veniva elevato il sacratissimo corpo di Cristo, essa si prostrava con le zampe piegate, come a rimproverare i distratti per la loro irriverenza ed invitare i devoti di Cristo ad un più intenso fervore verso il Sacramento". Molti credono che inginocchiarsi alla consacrazione è facoltativo, invece non è così. O credi nella Presenza Reale e allora ti inginocchi, o non credi e allora che cosa vieni in Chiesa a fare? "Nel Nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra (Lettera ai Filippesi, 2, 10). Nella Basilica di S. Giovanni in Laterano, dove non c'è uno straccio di inginocchiatoio, ma solo orribili sedie di plastica grigia, Langone ricorda anche che di solito ci si inginocchia se intorno si inginocchiano, si resta in piedi se intorno si resta in piedi. Questa a prescindere da comodità o scomodità. Scriveva Papa Ratzinger, prima di diventare papa: "L'incapacità a inginocchiarsi appare addirittura come l'essenza stessa del diabolico. Una fede o una liturgia che non conoscono più l'atto di inginocchiarsi, sono ammalate in un punto centrale". La Guida non entra in merito alle costruzioni delle chiese anche se facilmente si capisce che preferisce quelle che rispettano la tradizione, in particolare a croce greca. Si può pregare ovunque, ma la fede si fortifica meglio laddove l'edificio parla di Dio ancor prima che lo faccia il sacerdote. All'interno della chiesa, si cerca sempre come segno distintivo la Croce che dovrebbe essere sempre davanti all'altare maggiore, ben visibile allo sguardo del popolo radunato. Inoltre si bada al silenzio che è condizione prima di ogni azione sacra. La Guida critica aspramente l'uso dei tamburelli, delle chitarre elettriche, ci piacciono quando vogliamo ballare, non quando vogliamo pregare. C'è uno strumento per ogni momento e la messa non è il momento delle percussioni, ordigni dionisiaci che nell'ebrezza della possessione trascinano verso terra, non verso il cielo. Ai trambusti Langone preferisce il bell'organo a canne e magari il canto gregoriano. Questo non significa che l'autore della Guida sia un retrogrado reazionario che rifiuta i cambiamenti per partito preso, anzi è favorevole alle novità come i siti internet, è giusto che le parrocchie si dotino di questi ottimi strumenti, ma un sito deve essere fatto bene e costantemente aggiornato altrimenti si fa più bella figura non averlo. Sarebbe opportuno però che ci pensasse un giovane di medie competenze informatiche che voglia regalare a Gesù un paio d'ore al mese. I preti hanno troppo impegni. Infine riflessione personale: in una scheda Langone afferma che non bisogna meravigliarsi quando certe chiese sono snobbate o abbandonate dai fedeli, confido che mi è capitato quasi sempre frequentare altre chiese rispetto alla mia parrocchia. E' capitato in Sicilia, capita ora anche qui dove vivo, preferisco andare a messa a Milano nel tempio civico di S. Sebastiano in via Torino, dove si viene edificati dalle ottime omelie di don Maurizio, all'interno di una chiesa come Dio comanda.
(di Domenico Bonvegna)

02 dicembre 2010

Ho scritto al Presidente Napolitano per il suo commento sul suicidio di Monicelli

Il grado di libertà dell'atto di volontà con cui una persona si dà la morte non è misurabile, a meno che questa persona non sopravviva al suo gesto e si possa analizzare la situazione a posteriori. Ma se ciò non avviene, se l'atto suicida riesce, nessuno può arrogarsi il diritto di interpretare quel gesto: su quale base, se lui non era nemmeno presente al momento del dramma? Sarebbe meglio, molto meglio tacere. E se proprio si vuole parlare, sarebbe più opportuno porre domande sulla solitudine in cui quella persona è stata lasciata. La struttura sanitaria in cui era ricoverato esce assolta da quello che è accaduto? Pertanto, le parole del Presidente della Repubblica sono suonate come una giustificazione del suicidio e una assoluzione a priori di eventuali manchevolezze della struttura sanitaria.
Non posso rispettare l'azione compiuta da Monicelli, e non posso condividere la posizione di chi, come il Presidente della Repubblica, invoca tale rispetto, perché non credo affatto che il suo sia stato un gesto libero. Credo che una presenza affettuosa al suo fianco avrebbe potuto prevenire quel gesto. E anche perché tale rispetto può essere interpretato come giustificazione, e perciò come incoraggiamento al suicidio nei riguardi delle persone che si trovano in condizioni di difficoltà e di dolore. Il messaggio che dobbiamo mandare a tutte queste persone è la vicinanza, la solidarietà, la fraternità e il senso del nostro apprezzamento per la loro vita e la loro persona come cose preziose. Non un astratto rispetto che di fatto sminuisce il valore della vita umana.
(di Rodolfo Casadei- tratto da "Tempi" del 1/12/2010)

30 novembre 2010

Il messaggio del Santo Padre per la morte di Manuela Camagni


Pubblichiamo di seguito il Messaggio che il Santo Padre Benedetto XVI ha inviato per le Esequie della Memor Domini, Manuela Camagni, della Famiglia Pontificia, deceduta mercoledì scorso, di cui ha dato lettura Mons. Georg Gänswein ieri nel corso della Liturgia Esequiale a San Piero in Bagno di Romagna:

Cari fratelli e sorelle,
volentieri avrei presieduto le Esequie della cara Manuela Camagni, ma – come potete immaginare – non mi è stato possibile. Tuttavia, la comunione in Cristo permette a noi cristiani una reale vicinanza spirituale, in cui condividiamo la preghiera e l’affetto dell’anima. In questo vincolo profondo saluto tutti voi, in modo particolare i familiari di Manuela, il Vescovo diocesano, i sacerdoti, i Memores Domini, gli amici.
Vorrei qui offrire molto brevemente la mia testimonianza su questa nostra Sorella, che è partita per il Cielo. Molti di voi conoscono Manuela da lungo tempo. Io ho potuto beneficiare della sua presenza e del suo servizio nell’appartamento pontificio, negli ultimi cinque anni, in una dimensione familiare. Per questo desidero ringraziare il Signore per il dono della vita di Manuela, per la sua fede, per la sua generosa risposta alla vocazione. La divina Provvidenza l’ha condotta a un servizio discreto ma prezioso nella casa del Papa. Lei era contenta di questo, e partecipava con gioia ai momenti di famiglia: alla santa Messa del mattino, ai Vespri, ai pasti in comune e alle varie e significative ricorrenze di casa.
Il distacco da lei, così improvviso, e anche il modo in cui ci è stata tolta, ci hanno dato un grande dolore, che solo la fede può consolare. Molto sostegno trovo nel pensare alle parole che sono il nome della sua comunità: Memores Domini. Meditando su queste parole, sul loro significato, trovo un senso di pace, perché esse richiamano ad una relazione profonda che è più forte della morte. Memores Domini vuol dire: "che ricordano il Signore", cioè persone che vivono nella memoria di Dio e di Gesù, e in questa memoria quotidiana, piena di fede e d’amore, trovano il senso di ogni cosa, delle piccole azioni come delle grandi scelte, del lavoro, dello studio, della fraternità. La memoria del Signore riempie il cuore di una gioia profonda, come dice un antico inno della Chiesa: "Jesu dulcis memoria, dans vera cordis gaudia" [Gesù dolce memoria, che dà la vera gioia del cuore].
Ecco, per questo mi dà pace pensare che Manuela è una Memor Domini, una persona che vive nella memoria del Signore. Questa relazione con Lui è più profonda dell’abisso della morte
. E’ un legame che nulla e nessuno può spezzare, come dice san Paolo: "[Nulla] potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore" (Rm 8,39). Sì, se noi ricordiamo il Signore, è perché Lui, prima ancora, si ricorda di noi. Noi siamo memores Domini perché Lui è Memor nostri, ci ricorda con l’amore di un Genitore, di un Fratello, di un Amico, anche nel momento della morte. Sebbene a volte possa sembrare che in quel momento Lui sia assente, che si dimentichi di noi, in realtà noi siamo sempre presenti a Lui, siamo nel suo cuore. Ovunque possiamo cadere, cadiamo nelle sue mani. Proprio là, dove nessuno può accompagnarci, ci aspetta Dio: la nostra Vita.
Cari fratelli e sorelle, in questa fede piena di speranza, che è la fede di Maria presso la croce di Gesù
, ho celebrato la santa Messa di suffragio per Manuela la mattina stessa della sua morte. E mentre accompagno con la preghiera il rito cristiano della sua sepoltura, imparto con affetto ai familiari, alle consorelle e a tutti voi la mia Benedizione.

28 novembre 2010

Vengano nel mio hospice,cambieranno idea

«Invito i conduttori di 'Vieni via con me' nella mia clinica ad Asuncion. Sono sicuro che cambierebbero idea ». Indomito come sempre, padre Aldo Trento, membro della Fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo da anni di stanza in Paraguay, freme di fronte alla trasmissione di Fazio e Saviano che ha mostrato ad esempio i casi eutanasici Welby ed Englaro.
Padre Trento parla a ragione veduta: dirige il primo, e tutt’ora unico, hospice del Paraguay all’interno della clinica San Riccardo Pampuri ad Asuncion. Uno spazio per dare dignità ai malati terminali della capitale paraguaiana: dal 2004 sono oltre 600 le persone transitate in questo spazio di cura amorevole e dedizione al prossimo. «Nel nostro ospedale – spiega padre Trento – è venuto uno dei più grandi giornalisti latinoamericani, un ebreo ateo, una persona onesta, Humberto Rubin. Alla fine della visita ha detto: 'Se quello che ho visto è Dio, posso crederci anch’io'. Il nodo, in quella trasmissione su Rai tre, è una mancanza di lealtà con il proprio cuore. Temo non verranno mai a trovare Giovanna, una malata di Sla di Bresso (in provincia di Milano, ndr) che ho incontrato in questi giorni mentre ero in Italia. Sentirla mentre parla tramite il computer grazie al movimento degli occhi, sentirla che parla della grazia della vita e della bellezza di Cristo! Lei, che ha avuto tragedie in famiglia: un genero suicidatosi, il marito ucciso dai ladri in casa. E vedere la fede che ha!». Per il missionario, ciò di cui si è parlato in quel programma «è un falso problema, montato appositamente e dimenticando le migliaia di persone che lottano per la bellezza della vita. Come le migliaia di giovani che in dieci giorni in Italia ho incontrato in diverse città (Firenze, Bologna, Cantù, Palermo…) e che riempivano i saloni. Ho l’impressione che la televisione abbia unicamente l’interesse di far passare una cultura della morte. Lo constato nel mio Paese, il Paraguay, dove il tema dell’eutanasia è all’ordine del giorno: anche in America latina questa ideologia sta dominando con l’eliminazione del concetto di persona».
Ma perché non si dedica spazio ai tanti malati e alle loro famiglie che non scelgono la morte? Forse la carità fa paura? «Sì, il bene non fa notizia – risponde padre Trento –La cultura dominante, mediante i mezzi di comunicazione ha altri interessi. Di certo non quello di mostrare l’immenso positivo che esiste. Io non ho visto le televisioni venire a filmare il pienone di Palermo, di Pavia, di Firenze, di Cantù quando ho incontrato migliaia di giovani. Perché non vengono?».
A Firenze, dove ha parlato nei giorni scorsi, però, padre Trento ha avuto alcuni problemi. «Sì, perché l’anno scorso, per protesta, avevo restituito un’onorificenza della Repubblica italiana per denunciare l’inerzia sul caso Englaro. Allora il direttore dell’ospedale degli Innocenti di Firenze ha detto: quest’uomo (riferendosi a me) qui non è desiderabile, perché Beppino Englaro è cittadino onorario di Firenze. Ecco chi è ideologico. Hanno perfino paura che arrivi uno che la pensa diversamente per amore a quella figlia e anche a quel pover’uomo. Gli impediscono di parlare. E così ho tenuto la conferenza nell’aula magna dell’università, non all’ospedale degli Innocenti come previsto».
(tratto da "Avvenire")

24 novembre 2010

Colletta Alimentare a Carpenedolo


Carpenedolo partecipa alla Giornata Nazionale della Colletta Alimentare. I volontari saranno presenti per tutta la giornata di Sabato 27 Novembre nei supermercati Italmark, Coop e Penny Market.

Ecco le dieci righe della Colletta 2010: "Il povero è un uomo solo. Condividere gratuitamente questo dramma risveglia il vero desiderio che è nel cuore di ciascuno:essere amato. Solo questo può vincere la solitudine: riconoscere che siamo tutti bisognosi di fare esperienza di un amore immenso, sconfinato, più grande di qualunque situazione di sofferenza o disagio in cui ci troviamo. Questa scoperta ci rendecompagni di cammino di ogni uomo, proprio perché siamo costituiti dalla stessa attesa profonda di un amore senza fine.Che commozione davanti al fatto che questo amore ci è già stato donato, come ci ha ricordato Benedetto XVI: “La Carità è il dono più grande che Dio ha fatto agli uomini… perché è amore ricevuto e amore donato (Caritas inVeritate)”. Ogni essere umano infatti è oggetto di una preferenza di Dio, che si è donato totalmente e gratuitamente aciascuno. È questa certezza che genera la nostra speranza e ci sostiene nel rivolgere a tutti l’invito a partecipare alla Giornata Nazionaledella Colletta Alimentare. Per sperimentare come anche il gesto di fare la spesa e donarla a chi è più povero possa esserel’occasione sorprendente di un immediato e positivo cambiamento per sé il cui riverbero può raggiungere la società intera."

Colletta Alimentare: una piccola spesa, un grande gesto. Ti aspettiamo!

22 novembre 2010

Notizie su Saviano e Caterina

Caro Roberto,
vieni via con me e lascia i tristi a friggere nel loro odio. Questo è un invito pieno di stima: vieni a trovare mia figlia Caterina. Ti accoglierò a braccia spalancate e se magari ne tirerai fuori l’idea per un articolo, potrai devolvere un po’ di diritti alle migliaia di bambini lebbrosi che sto aiutando tramite i miei amici missionari i quali li curano nel loro lebbrosario (in un Paese del terzo mondo).Vieni senza telecamere, ma con il cuore e con la testa con cui hai scritto “Gomorra”, lasciandoti alle spalle i fetori dell’odiologia comunista (a cui tu non appartieni) che si respira in certi programmi tv.

Mi scrivesti – ti ricordi ? - quando io ti difesi su queste colonne per il tuo bel libro. Ora io, debole, scrivo a te forte e potente, io padre inerme in lotta con l’orrore (e in fuga dalla tv) scrivo a te, star televisiva osannata, io cristiano controcorrente da sempre, scrivo a te che stimo: vieni a guardare negli occhi mia figlia venticinquenne che sta coraggiosamente lottando contro un Nemico forse più tremendo di quei quattro squallidi buzzurri che sono i camorristi.Lei non si arrende all’orrore, come non ci si arrende alla camorra. Vieni a vedere il suo eroismo e quello di tanti altri come lei, che – come dice Mario Melazzini, rappresentante di molti malati di Sla – sono silenziati dal regime mediatico del ‘politically correct’ nel quale tu, purtroppo, hai accettato di diventare una stella. Vieni. Vedrai gli occhi di Caterina, ben diversi da quelli arroganti e pieni di disprezzo delle mezzecalzette o dei tromboni che civettano nei salotti intellettuali e giornalistici.

Magari potrai vedere addirittura la felicità dentro le lacrime e forse eviterai di straparlare sull’eutanasia, sulla malattia o sul fine vita (come hai fatto lunedì scorso) imponendo il tuo pensiero unico, perché i malati, i disabili che implorano di essere aiutati e sostenuti, nel salotto radical-chic tuo e di Michele Serra, non hanno avuto diritto di parola.Come non ce l’hanno – in questa dittatura del pensiero unico – i bambini non nati o i cristiani macellati da ogni parte e disprezzati o condannati a morte per la loro fede: è il caso della giovane Asia Bibi.Vedi, a me non frega niente della tua diatriba col ministro Maroni: siete due potenti e avete gli strumenti a vostra disposizione per battervi. Non c’è bisogno di galoppini che osannino l’uno o l’altro.A me importa dei deboli, dei malati, dei piccoli, dei poveri che sono ignorati, silenziati e umiliati in televisione. A cominciare dal programma di Michele Serra dove recitate tu e Fazio. Dove si taglia a fette il disprezzo per la Chiesa.

Per la Chiesa che tu sai bene – caro Roberto – ha lottato contro la camorra e la mafia ben prima di te e con uomini inermi e poveri che ci hanno pure rimesso la pelle.La Chiesa che conosce i sofferenti e i miseri, li ama e quasi da sola soccorre tutti i disperati della terra, un po’ più di Michele Serra di cui ho sentito parlare solo nei salotti giornalistici, non in lebbrosari del Terzo Mondo o nei bassifondi di Calcutta (di Fabio Fazio neanche merita occuparsi).E’ un peccato che tu metta il tuo volto a far da simbolo di un establishment intellettuale che non ha mai letto il tuo e mio Salamov e non ha mai combattuto l’orrore rosso che lui denunciò e contro cui morì.Quello sì che sarebbe anticonformismo: andare in tv a raccontare Kolyma che è con Auschwitz l’abisso del XX secolo, ma che – a differenza di Auschwitz – non è mai stata denunciata nella nostra cultura e nella nostra televisione!

Abbiamo visto nel tuo programma lo spettro del (post) comunismo che legittimava lo spettro del (post) fascismo. Dandoci a bere che loro hanno “i valori”. Anzi: solo loro. Visto che solo loro sono stati ritenuti degni di proclamarli.Il rottame dell’odiologia del Novecento che ha afflitto l’umanità e in particolare l’Italia è davvero quello che oggi ha i titoli per sdottoreggiare di valori?Mi par di sentire mio padre minatore cattolico – che lottò in vita contro il comunismo e contro il fascismo – che, quando era ancora fra noi, si ribellava davanti a questa tv e gridava: “Andate al diavolo!”.Quelli come lui – che hanno garantito a tutti noi la libertà e il benessere di cui godiamo – non ce li chiamate a proclamare i loro valori.Perché sono state le persone comuni come lui a capire la grandezza di un De Gasperi e ad aiutarlo, ricostruendo l’Italia. Invece gli intellettuali italiani del Novecento sono andati dietro ai pifferi di Mussolini e di Togliatti (e di Stalin).

E dopo questo tragico abbaglio l’establishment intellettuale di oggi ancora pretende di indicare la via, gigioneggiando su tv e giornali.Pretendono di fare la rivoluzione (etica naturalmente) con tanto di contratto o fattura (sacrosanta retribuzione per la prestazione professionale, si capisce).Sono il regime e pretendono di spacciarsi per l’eresia, incarnano la pesantezza del conformismo e si atteggiano a dissidenti, sbandierano le regole per gli altri e se ne infischiano di quelle che dovrebbero osservare loro, predicano la tolleranza e non tollerano alcune diversità culturale e umana.Come se non bastasse proclamano l’antiberlusconismo etico e antropologico e con l’altra mano (molti di loro) firmano contratti con le aziende di Berlusconi come Mondadori, Mediaset o Endemol (di o partecipate da Berlusconi).Pensa un po’ Roberto, io pubblico con la Rizzoli e lavoro per la Rai. Ti assicuro che si può vivere dignitosamente anche senza lavorare con aziende che fanno capo al gruppo Berlusconi, visto che (a parole) viene così schifato da questa intellighentsia.

Caro Roberto, l’altra sera mia figlia Caterina stava ascoltando un cd con canti polifonici che lei conosce bene (perché li cantava anche lei). Era molto concentrata ad ascoltare una laude cinquecentesca a quattro voci che s’intitola: “Cristo al morir tendea”.In essa Maria parla di Gesù ai suoi amici, agli apostoli. E quando le sue struggenti parole – cantate meravigliosamente – hanno sussurrato “svenerassi per voi” (si svenerà per voi), Caterina – che non può parlare – è scoppiata a piangere.Questa commozione per Gesù – che nei salotti che oggi frequenti è disprezzato come nei salotti di duemila anni fa – ha cambiato il mondo e salva l’umanità.E’ la stessa commozione di Asia Bibi, la giovane madre condannata a morte perché – a chi voleva convertirla all’Islam – ha risposto: “Gesù è morto per me, per salvarmi. Maometto cos’ha fatto per voi?”.

Ecco, caro Roberto, questa commozione per un Dio che ama così è il cristianesimo.E tu hai conosciuto uomini che per l’amicizia di Gesù, per amare gli esseri umani come lui, hanno scommesso la vita, hanno dato se stessi. Quando si sono visti quei volti come si può sopportare di vivere in un mondo di maschere e di recitare nei loro teatrini?

Ti abbraccio,

(di Antonio Socci- tratto da "Libero" del 19/11/2010)

21 novembre 2010

Domenica 21 Novembre preghiamo per i cristiani in Iraq


Comunione e Liberazione aderisce all’appello dei Vescovi italiani a pregare domenica 21 novembre per i cristiani dell’Iraq, «che soffrono la tremenda prova della testimonianza cruenta della fede» (Comunicato finale dell’Assemblea CEI, 11 novembre 2010). Il movimento invita tutti i suoi aderenti a partecipare alle messe secondo le intenzioni di Benedetto XVI, che il giorno dopo il gravissimo attentato nella cattedrale siro-cattolica di Bagdad che ha causato decine di morti e feriti, ha detto: «Prego per le vittime di questa assurda violenza, tanto più feroce in quanto ha colpito persone inermi, raccolte nella casa di Dio, che è casa di amore e di riconciliazione. Esprimo inoltre la mia affettuosa vicinanza alla comunità cristiana, nuovamente colpita, e incoraggio pastori e fedeli tutti ad essere forti e saldi nella speranza. Davanti agli efferati episodi di violenza, che continuano a dilaniare le popolazioni del Medio Oriente, vorrei infine rinnovare il mio accorato appello per la pace: essa è dono di Dio, ma è anche il risultato degli sforzi degli uomini di buona volontà, delle istituzioni nazionali e internazionali. Tutti uniscano le loro forze affinché termini ogni violenza!» (Angelus, 1° novembre 2010).

Rivolgendosi a tutti gli aderenti a Comunione e Liberazione, don Julián Carrón ha detto che «la partecipazione alle messe domenicali secondo le intenzioni del Papa e dei Vescovi è un gesto di comunione reale e di carità perché sentiamo come nostri amici i cristiani dell’Iraq, anche se non li conosciamo direttamente». Come dice don Giussani, «se il sacrificio è accettare le circostanze della vita, come accadono, perché ci rendono corrispondenti, partecipi della morte di Cristo, allora il sacrificio diventa la chiave di volta di tutta la vita […], ma anche la chiave di volta per capire tutta la storia dell’uomo. Tutta la storia dell’uomo dipende da quell’uomo morto in croce, e io posso influire sulla storia dell’uomo − posso influire sulla gente che vive in Giappone adesso, sulla gente che sta in pericolo sul mare adesso; posso intervenire ad aiutare il dolore delle donne che perdono i figli adesso, in questo momento −, se accetto il sacrificio che questo momento mi impone» (L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, pp. 389−390).

Per questa ragione, ha aggiunto Carrón, «se un gesto di preghiera può influire sul cambiamento della gente in Giappone, può cambiare qualcosa anche in Iraq. Il sacrificio che facciamo per i cristiani iracheni e la preghiera di domenica siano un gesto con cui invochiamo, imploriamo da Dio la protezione per loro».

l’ufficio stampa di Cl- Milano, 18 novembre 2010.

20 novembre 2010

Regione Lombardia contro la persecuzione dei cristiani


Salviamo la vita dei cristiani in Iraq e nel mondo». Con questa scritta di 20 metri per 20, visibile da oggi per un mese sulla facciata del Palazzo Pirelli (lato piazza Duca d'Aosta), e con una lettera indirizzata al presidente dell'Assemblea e al segretario generale dell'Onu, la giunta di Regione Lombardia e il suo presidente, Roberto Formigoni, vogliono «scuotere l'indifferenza di tanti nei confronti delle persecuzioni in atto in varie parti del mondo contro i cristiani».
Sono molti, infatti, gli episodi riportati dalle cronache degli ultimi giorni che lo attestano. Dalla strage irachena del 31 ottobre, quando un gruppo di fondamentalisti islamici ha assaltato la cattedrale siro-cattolica di Baghdad, uccidendo 52 fedeli, agli altri due fedeli uccisi il 7 novembre sempre a Baghdad. Louay Daniel Yacoub, 49 anni, era davanti all'ingresso del suo appartamento quando degli sconosciuti lo hanno freddato a colpi d'arma da fuoco. Un altro cristiano è stato ucciso lo stesso giorno ma di lui non si conosce ancora l'identità. Fino alla sentenza del tribunale del distretto di Nankana, in Pakistan, che ha condannato a morte Asia Bibi, 45 anni, accusata di blasfemia. Ad oggi nessuna condanna per blasfemia è stata eseguita, ma si sono verificate decine di esecuzioni sommarie e linciaggi.
«Studi recenti – ha detto Formigoni ai microfoni dei giornalisti – dimostrano che le persecuzioni religiose sono in aumento e il 75% di queste sono rivolte verso i cristiani. Regione Lombardia vuole reagire a questa situazione e inserirsi nel dibattito che speriamo prenda quota su questi temi, stimolando iniziative forti da parte della comunità internazionale per abbattere il muro di indifferenza».Un’incuranza che non deve più perpetrarsi, anche sotto il profilo di una necessaria reciprocità tra gli stati, come ha sottolineato il vicepresidente lombardo Andrea Gibelli: «Ci sono paesi in cui la libertà religiosa, diritto sancito in termini assoluti dalle Carte internazionali, non viene osservata. Molti cristiani in Africa e Medio Oriente sono costretti a emigrare perché vengono considerati cittadini di serie B e il fatto che ci siano persone che devono abbandonare i propri paesi per questa ragione è intollerabile». Un punto quest’ultimo che vuole sottolineare anche quanto sia importante nel 2010 che l'uomo sia al centro dell'interesse e non ci si occupi solo di parametri di natura economica.
(tratto dal settimanale "Tempi")

18 novembre 2010

Nel nuovo tempio un antichissimo livore


Quanto sussiego. Quanta retorica. E che propensione al predicozzo. Quanto ricorso al tremolare di lacrimuccia sotto i fari tv. Poca storia. Molte chiacchiere e molta furbizia. Molti slogan. La De Filippi in confronto è una dilettante.
«Aria nuova» dicono i vertici di Raitre. Sarà… Aspettiamo dunque che di questa aria possa godere anche chi non la pensa come i due predicatori Saviano-Fazio. La puntata di lunedì ha avuto un convitato di pietra. Come se i due 'mattatori' avessero un complesso grande come una casa. E questo complesso si chiama cristianesimo, si chiama Chiesa.
L’unico bersaglio vero, tenacemente e persino violentemente cercato, è stata infatti la Chiesa. Fatta passare per una realtà assurda che disonora i giusti, asseconda i potenti e i ladri, viola le coscienze e non vuole i poveri tra i piedi. La Chiesa evidentemente va bene, ma solo se la pensa come loro. È insopportabile per questi nuovi 'giusti' tribunizi che ci sia qualcuno che non segue il filo così buono, carino, ricercato eppure casual, moderno, ovvio delle loro posizioni. Lo diceva cent’anni fa Newman: non la vogliono eliminare, ma vorrebbero la Chiesa come ancella. E infatti, han trovato qualche prete vanitoso che si è prestato a fare in tv da scendiletto delle loro prediche squinternate e faziose. Un servo vanitoso si trova sempre.
Ma come tutti quelli oppressi da un complesso Saviano e Fazio restano per così dire impigliati, e un poco grotteschi, nel loro agitarsi.
Come quelli che hanno il complesso della statura e mettendosi tacchi evidenziano di più la loro insofferenza. Un che di posticcio come risultato. Di finto. Hanno dato fondo al repertorio più consono a somigliare a custodi di una verità, hanno dato il massimo finendo per diventare in definitiva una brutta caricatura del loro avversario dichiarato. E si è capito che non sono giornalisti – ché non lo sono, evidentemente – non sono solo predicatori, ma possibilmente a vescovi e papi vorrebbero farsi somiglianti, ma non a quelli veri bensì a quelli che spacciano per veri e insolentiscono. Finendo più volte nel patetico e nel grottesco.
La Rai coi nostri soldi ha permesso loro di celebrare la liturgia dell’attacco fazioso, del pensiero a senso unico su questioni drammatiche e discusse, su ferite aperte per migliaia di famiglie. Ha permesso di pontificare con sussiego su questioni gravi. Forti del successo di share (naturalmente i successi tv sono sporchi e cattivi solo quando li fanno altri e con la massificazione no, loro non c’entrano) ora fanno dire in Rai: era ora che si sperimentassero vie nuove.
Certo, c’è bisogno di nuove piste, di nuove idee. Di volti nuovi. Di nuovi 'format'. E di «aria nuova». Ma non di questa retorica vecchia di almeno cinquant’anni.
Non c’è bisogno di questi visini compunti da finti chierichetti già veduti mille volte. Non di questi oratori complessati. Non di queste faziose ricostruzioni dei fatti, di questi monologhi da inviato della Giustizia nei salotti tv. Forse i nuovi predicatori non capiranno mai la differenza tra il loro predicare e il cristianesimo. Forse il loro complesso li porta a pensare di essere in questo modo quel che la Chiesa dovrebbe essere. Lo fanno persino (forse) in buona fede, certo non solo per i molti soldi che ci guadagnano. Lo fanno per salvarci tutti. Per rendere tutti migliori. Così da non aver più bisogno del cristianesimo. Di non aver più bisogno della Chiesa.
Perché bastano loro, piacevoli, in primo piano, in quel che hanno deciso essere il nuovo tempio: la tv. Ma nel luccichio che a tutti compiace i più svegli vedono lo scintillio di uno strano, nuovo e antichissimo livore.
(di Davide Rondoni- tratto da "Avvenire")

17 novembre 2010

La predica di Biffi al politico smemorato sulle leggi razziali


Con il suo intervento sulle vergognose leggi razziali nel quale ha criticato la Chiesa per non aver reagito, Gianfranco Fini ha rivelato «i suoi gratuiti preconcetti e la sua singolare disinformazione». Lo scrive il cardinale Giacomo Biffi, 82 anni, arcivescovo emerito di Bologna, una delle menti più acute dell’episcopato italiano degli ultimi decenni, che vive da oltre un lustro ritirato e silente (dopo aver lasciato la guida della diocesi, nel dicembre 2003, non ha mai più rilasciato interviste) sulle colline della città felsinea.
È una delle tante parti aggiunte o riscritte dell’autobiografia del porporato, Memorie e digressioni di un italiano cardinale (Edizioni Cantagalli, pagg. 688, euro 25), in libreria nei prossimi giorni. Un libro che attraversa la Storia e la storia della Chiesa del Novecento. Una delle pagine ampliate riguarda le leggi razziali e la reazione cattolica. Il cardinale ha voluto aggiungere un riferimento al presidente della Camera, pur senza nominarlo direttamente. Ne indica però la data di nascita. «C’è stato recentemente chi (dall’alto di una delle massime cariche dello Stato) – scrive Biffi – in un intervento pubblico del tutto immotivato, ha parlato di un deplorevole silenzio della Chiesa in quella circostanza. Certo, essendo egli del 1952, ha l’attenuante che all’epoca non era ancora nato; ma ha l’aggravante di aver voluto ciò nonostante intervenire nel merito, rivelando al tempo stesso i suoi gratuiti preconcetti e la sua singolare disinformazione».
L’arcivescovo emerito di Bologna, quando ha scritto questa pagina, non poteva sapere della crisi di governo che proprio il presidente della Camera avrebbe aperto dopo la nascita del suo nuovo partito, Futuro e libertà. E dunque sarebbe del tutto improprio attribuire a Biffi interventi a gamba tesa nel (confusissimo) agone politico. Ma è certo che il cardinale non ha digerito le parole pronunciate da Fini il 16 dicembre 2008, a Montecitorio, inaugurando un convegno per i settant’anni da quell’infamia nazionale con la quale il fascismo cercò di mettersi in pari con l’alleato di Berlino. Il presidente della Camera in quella occasione aveva affermato che «l’ideologia fascista da sola» non bastava a spiegare «l’infamia» e c’è da chiedersi «perché la società italiana si sia adeguata, nel suo insieme, alla legislazione antiebraica e perché, salvo talune luminose eccezioni, non siano state registrate manifestazioni di resistenza. Nemmeno, mi duole dirlo, da parte della Chiesa cattolica».
Il giorno dopo, una nota pubblicata su L’Osservatore Romano rilevava: «Di certo, sorprende e amareggia il fatto che uno degli eredi politici del fascismo — che dell’infamia delle leggi razziali fu unico responsabile e dal quale pure da tempo egli vuole lodevolmente prendere le distanze — chiami ora in causa la Chiesa cattolica. Dimostrando approssimazione storica e meschino opportunismo politico».
In effetti il Papa Pio XI fu l’unica autorità a pronunciarsi pubblicamente contro il «Manifesto della razza» nel corso di tre discorsi, e il Vaticano, attraverso i suoi canali diplomatici, fece il possibile per arginare le leggi razziali. Ci furono certo differenziazioni, reazioni distinte, atteggiamenti tiepidi, ma è innegabile la contrarietà della Chiesa.
Nella sua autobiografia, prima dell’affondo contro Fini, il cardinale Biffi rievoca i fatti di quei giorni del 1938 che l’avevano «profondamente colpito» benché non avesse ancora undici anni. E ricorda: «Si levò a Milano una voce – era la prima e rimase l’unica – che ebbe il coraggio di prendere apertamente le distanze da tanta follia. Il 13 novembre il cardinal Schuster dal pulpito del duomo di Milano, per l’inizio dell’Avvento Ambrosiano, pronunciò un’omelia che fin dalle prime parole, invece di richiamare il contesto liturgico, affrontò sùbito l’argomento che più lo preoccupava: “È nata all’estero e serpeggia un po’ dovunque una specie di eresia, che non solamente attenta alle fondamenta soprannaturali della cattolica Chiesa, ma materializzando nel sangue umano i concetti spirituali di individuo, di Nazione e di Patria, rinnega all’umanità ogni altro valore spirituale, e costituisce così un pericolo internazionale non minore di quello dello stesso bolscevismo. È il cosiddetto razzismo”».
È difficile oggi, continua Biffi, «rendersi conto dell’impressione suscitata da quelle parole di critica nei confronti del pensiero e comportamento di un governo che, ormai da decenni, non tollerava neppure la più tenue espressione dissonante. Esse non rimasero confinate entro la pur solenne atmosfera di una cattedrale affollata: furono stampate nella Rivista Diocesana Milanese e, due giorni dopo che erano state pronunciate, divulgate ne L’Italia, il quotidiano cattolico che entrava nelle nostre case». Schuster non fu lasciato solo: «Da parte del Papa arrivò un messaggio a firma del segretario monsignor Carlo Confalonieri: “Il Santo Padre esorta il cardinale di Milano a sostenere con coraggio la dottrina cattolica, poiché non si può cedere su questo punto, né il giornale L’Italia può cambiare indirizzo”...».
«Ero solo un ragazzo – conclude – ma da quella vicenda ho capito quale fortuna “laica” e razionale sia, quando sopraggiunge l’ora della generale pavidità e del conformismo accondiscendente, la presenza nel nostro paese della Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità». Una memoria da ravvivare, secondo il porporato di origini ambrosiane, soprattutto al presidente della Camera, dopo il suo «intervento pubblico del tutto immotivato».

(di Andrea Tornielli- tratto da "Il Giornale")

12 novembre 2010

La gru occupata e la violenza di chi protesta


Un angolo del centro storico di Brescia è tenuto in ostaggio da più di dieci giorni da alcuni manifestanti che protestano contro l'esclusione dalla regolarizzazione di colf e badanti. Uno spettacolo indegno di una città civile dove la disperazione di alcuni immigrati viene abilmente manipolata e cavalcata da chi cerca solo l'occasione per dare visibilità al proprio antagonismo sociale contro tutto e contro tutti. Su questa vicenda ha preso posizione anche Ateneo Studenti che ha distribuito un volantino nelle università bresciane.

10 novembre 2010

La Chiesa non si fida del capo laicista del Fli

Quelle di Fini sono posizioni da partito radicale di destra. Ma tra lui e Pannella, preferisco l’originale...». La battuta di Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione sussidiarietà, può ben sintetizzare la diffidenza di diversi esponenti del mondo cattolico di fronte alle posizioni di Gianfranco Fini, che domenica, da Bastia Umbra, aveva detto di volersi allineare agli standard europei sulla tutela delle famiglie di fatto, definendo il Pdl come il movimento politico «più arretrato» d’Europa «sui diritti civili».Dichiarazioni che ieri sono state affrontate nella risposta a una lettera dal direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, il quale ha osservato come «il “partito moderno” anzi “futurista” di Gianfranco Fini, ultima evoluzione della destra post-fascista, sta rivelando di portare nel suo Dna qualcosa di strutturalmente e - per quanto ci riguarda - di inaccettabilmente vecchio: la pretesa radicaleggiante di dividere il mondo in buoni e cattivi, in arretrati e progrediti culturalmente, sulla base di una premessa e di un pregiudizio ideologico».Tarquinio scrive che il sottofondo delle parole del presidente della Camera ricordano «le sicumere dell’anticlericalismo», e «una certa Italia liberale in tutto e con tutti tranne che nei confronti dei cattolici». «Un retorico elogio della confusione, all’insegna del più piacione dei relativismi», conclude il direttore del quotidiano della Cei, che dopo aver ricordato come Fini voglia «ridurre la “famiglia tradizionale” a una possibilità, a una mera variabile in un catalogo di desideri codificati» e abbia invece osteggiato la legge sul fine vita che voleva scongiurare «la surrettizia e anti-umana introduzione di pratiche eutanasiche nel nostro ordinamento», invita «i potenziali interlocutori politici» del presidente della Camera - leggi l’Udc - a tenerne conto. «Penso che quelle di Fini siano posizioni da partito radicale di destra - spiega al Giornale il presidente della Fondazione sussidiarietà Vittadini -. Se per dire che i diritti civili sono avanzati bisogna essere portatori di una concezione ridotta dell’uomo, che tra l’altro non appartiene alla storia del popolo italiano, beh, questo lo abbiamo già sentito dire da Marco Pannella. E io preferisco l’originale, perché Pannella è almeno motivato da una sua idea di uomo. Nel caso di Fini non si capisce quali siano le radici di queste posizioni, se non quelle di una certa destra anticlericale e vecchia».«Con tutti i suoi limiti personali, dei quali si è parlato ampiamente anche negli ultimi giorni, Berlusconi è riuscito a tenere l’alleanza Pdl e Lega su posizioni accettabili per il mondo cattolico», sottolinea Carlo Costalli, presidente del Movimento cristiano lavoratori. «Le posizioni che Fini ha preso negli ultimi anni, da quella sulla legge 40 a quella sul fine vita, sono pericolose - aggiunge - e lontanissime da noi. Il presidente della Camera rischia di fare il cavallo di Troia per quanto riguarda i temi eticamente sensibili». «E Casini - conclude Costalli - che ci tiene alla matrice cattolica del suo partito, dovrebbe considerare improponibile un’alleanza con Fini».«Spiace notare - aggiunge Riccardo Bonacina, direttore editoriale di Vita, il giornale del no profit - che Fini sia la controfigura di giochi che si decidono altrove. È espressione del politically correct, ma non riesco a capire con quale credibilità».«Mi sembra che il fatto che la nostra Costituzione riconosca il valore specifico della famiglia fondata sul matrimonio - fa notare il sociologo Luca Diotallevi, vicepresidente delle Settimane sociali - non sia un principio che toglie diritti ad altre persone ma stia a indicare invece il valore sociale fondamentale di questa istituzione». «Noi insistiamo sulla famiglia come soggetto sociale - gli fa eco il presidente del Forum delle famiglie, Francesco Belletti - e ci fondiamo sull’articolo 29 della Costituzione. Le altre sono libertà individuali che nulla hanno a che fare con la famiglia». Netto anche il giudizio di Marco Invernizzi, delegato di Alleanza Cattolica al Forum: «Il cardinale Bagnasco ha ripetuto ancora una volta che i principi non negoziabili sono il criterio dell’unità politica dei cattolici e delle loro scelte elettorali. Quello che va dicendo, e non da ieri, Gianfranco Fini sui temi etici non ci va bene». Infine, anche il segretario della Cei, Mariano Crociata, da Assisi ha detto che nel valutare le prese di posizione e iniziative del mondo politico «l’interesse maggiore» per i vescovi «è culturale» e sui valori.

08 novembre 2010

Il Papa sfida Zapatero sul matrimonio naturale


«L’uomo e la donna che si uniscono in matrimonio» vanno «sostenuti dallo Stato, la vita «inviolabile e sacra» dei figli va difesa «fin dal momento del concepimento». Servono «adeguate misure economiche e sociali» perché la donna possa trovare «la sua piena realizzazione in casa e al lavoro».
Dal cuore del Paese di José Luis Zapatero, di quella che Spagna che ha introdotto i matrimoni gay, il divorzio veloce e – da un anno – l’aborto per le minorenni senza la necessità del consenso dei genitori, Benedetto XVI fa sentire la voce della Chiesa. È un pronunciamento quasi obbligato, quello del Papa, che ieri, nella seconda e ultima giornata del suo viaggio, ha consacrato la cattedrale della Sagrada Familia progettata dall’architetto Antonio Gaudì, per il quale si è aperto il processo di beatificazione. Un’opera straordinaria, unica, ammirata dai visitatori di tutto il mondo, che da ieri è diventata una chiesa officiata a tutti gli effetti. Essendo dedicata alla sacra famiglia di Nazaret, ha offerto l’occasione a Ratzinger per ripetere, con parole gentili ma al tempo stesso inequivocabili, un appello per la difesa della famiglia e della vita, legando il perdurare di una «vera libertà» proprio all’esistenza dell’amore e della fedeltà.
Mentre la papamobile, stava arrivando alla Sagrada Familia, un gruppo di duecento gay e lesbiche hanno inscenato al suo passaggio una protesta, consistita in un «bacio collettivo» durato circa cinque minuti e scandito da slogan e invettive contro il Pontefice.Benedetto XVI è stato accolto davanti alla cattedrale in costruzione da 128 anni, dal re Juan Carlos di Borbone e dalla regina Sofia, con i quali si è brevemente intrattenuto prima dell’inizio della messa. Nell’omelia del rito di consacrazione della nuova chiesa, il Papa, ha ricordato che oggi «si è progredito enormemente in ambiti tecnici, sociali e culturali». Ma «non possiamo accontentarci di questi progressi». Con essi, ha detto ancora Ratzinger, «devono essere sempre presenti i progressi morali, come l’attenzione, la protezione e l’aiuto alla famiglia, poiché l’amore generoso e indissolubile di un uomo e una donna è il quadro efficace e il fondamento della vita umana nella sua gestazione, nella sua nascita, nella sua crescita e nel suo termine naturale».
«Solo laddove esistono l’amore e la fedeltà – ha ribadito il Papa – nasce e perdura la vera libertà. Perciò, la Chiesa invoca adeguate misure economiche e sociali affinché la donna possa trovare la sua piena realizzazione in casa e nel lavoro, affinché l’uomo e la donna che si uniscono in matrimonio e formano una famiglia siano decisamente sostenuti dallo Stato, affinché si difenda come sacra e inviolabile la vita dei figli dal momento del loro concepimento, affinché la natalità sia stimata, valorizzata e sostenuta sul piano giuridico, sociale e legislativo». «Per questo – ha concluso – la Chiesa si oppone a qualsiasi forma di negazione della vita umana e sostiene ciò che promuove l’ordine naturale nell’ambito dell’istituzione familiare». Il Papa è tornato a parlare della «dignità» e del «valore primordiale del matrimonio e della famiglia, speranza dell’umanità, nella quale la vita riceve accoglienza, dal suo concepimento fino al suo termine naturale», anche all’Angelus. Poi, nel pomeriggio, Benedetto XVI ha visitato l’Istituto «Obra Benéfico-Social del Nen Déu», istituto per bambini malati e bisognosi creato nel 1892 dalla beata Madre Carmen del Niño Jesús per accogliere e aiutare i bambini down. Da quando è stato introdotto l’aborto, nascono sempre meno bambini con questo handicap e oggi l’istituto aiuta anche piccoli con altri problemi. Nel suo discorso, il Papa ha invitato le autorità «a prodigarsi perché i più svantaggiati siano sempre raggiunti dai servizi sociali, e a coloro che sostengono con il loro generoso aiuto entità assistenziali di iniziativa privata, come questa scuola». E ha chiesto «che i nuovi sviluppi tecnologici nel campo medico non vadano mai a detrimento del rispetto per la vita e la dignità umana».All’aeroporto, prima di ripartire per Roma, il Papa ha incontrato brevemente il premier spagnolo Zapatero appena rientrato dall’Afghanistan. Al colloquio ha assistito il Segretario di Stato Tarcisio Bertone.

(di Andrea Tornielli- tratto da "Il Giornale")

03 novembre 2010

I cristiani e l'immigrazione




A me sembra che la situazione dell’Europa di oggi assomigli terribilmente a quella della fine dell’Impero romano. Una grandezza passata, circondata di rovine. Una civiltà si dissolve piano piano, senza neppure accorgersene. Si canta e si balla, come sul Titanic, senza comprendere cosa stia per accadere.
L’impero romano crollò anzitutto per motivi interni: la corruzione, la disgregazione familiare, l’aborto di massa che portò ad una crisi demografica devastante. Popoli senza terra si accorsero di poter entrare, come la lama nel burro, in un Impero senza popolo, che spesso era stato costretto a chiamarli per primo, avendo bisogno di braccia e di giovani soldati.
Nacque così il periodo più difficile del Medioevo, quello dei primi secoli dopo il 476 d.C: i germani erano veramente dei barbari, con usanze e costumi feroci. Praticavano la faida, l’ordalia, veneravano dei guerrieri, adoravano serpenti ed alberi, praticavano il sacrificio umano… Ad accoglierli, però, non ci fu soltanto un impero in decadenza: di fronte a sé i barbari trovarono anche la cultura latina e soprattutto, il cristianesimo in espansione. Successe così che i vinti riuscirono, con la loro superiorità, a conquistare piano piano, dopo anni e anni di asprezze, guerre, povertà, i vincitori. Col tempo, soprattutto grazie a papi, santi e ad alcune donne, come Clotilde e Teodolinda, i barbari si convertirono alla Chiesa e alla latinità.
Carlo Magno è un esempio di tutto ciò: figlio dei dominatori, rifondò l’Impero, dandogli anche una struttura culturale e religiosa. L’Europa dopo il Mille, quella delle cattedrali, dei Comuni, di Dante, di Giotto, delle università e degli ospedali, sorse dunque dopo secoli in cui una idea forte, quella cristiana, si era affermata e aveva permesso un lento amalgamarsi di popoli e di culture.
Ma oggi? Mentre gli italiani e gli europei non hanno più figli, mentre la famiglia occidentale vive una crisi terribile, popoli stranieri spingono sui confini, in cerca della nostra ricchezza, dietro la quale, però, non vi è più nulla. Di fronte a questa massa di immigrati che avanza vi sono varie posizioni possibili. Anzitutto c’è quella culturalmente dominante, sostenuta dalla sinistra.
Secondo questa visione l’immigrazione di massa è di per sé un bene: non bisogna allarmarsi, prendere provvedimenti di alcun genere. Nell’ideologia di sinistra, che odia la mentalità cristiana, tutte le altre culture sono ben accette e relativisticamente eguali. “Accogliere” significherebbe lavorare per la società multietnica, senza scorgere in essa alcuna problematicità. Questa visione è il cavallo di Troia dell’Europa: gli islamici di oggi, o gli slavi dei paesi ex comunisti, non sono fortunati come i Germani di un tempo. Di fronte a sé non trovano nulla, e certamente non saranno mai attratti dalla nostra cultura, così decadente e così priva di identità. In quanto nemica dell’identità storica e religiosa dell’Europa, la sinistra prepara un futuro di ghetti e di conflitti sociali, perché è impossibile che popoli tanto diversi, in un’epoca di migrazioni così imponenti, si possano incontrare in nome del niente. L’ideologia sinistra dell’eguaglianza, infatti, non fonda nulla: è la stessa che ha permesso a Stalin di sterminare i propri compatrioti russi, al cinese Mao i cinesi, a Pol Pot i suoi fratelli cambogiani…
La risposta cristiana al problema dell’immigrazione è assai diversa. Essa presuppone anzitutto uno sguardo realistico: occorre che lo Stato tuteli anzitutto i propri cittadini, e che non confonda l’accoglienza con la concessione di una licenza deprecabile. All’epoca dell’Impero in fiamme S.Agostino invitava gli africani del suo tempo ad accogliere coloro che scappavano dal nord dell’Impero, fraternamente. Chiedeva loro di essere fratelli dello straniero, chiedeva sacrifici materiali (che oggi non sappiamo più fare), ma non di sacrificare la propria fede e la propria cultura (cosa che oggi abbiamo già fatto). Agostino invitava a riconoscere in ogni uomo una creatura di Dio, dotata di anima immortale: è solo questo sguardo, infatti, non quello materialista di derivazione comunista o liberale, che può farci vedere uno straniero, anche importuno, non solo come un nemico.
Solo questo sguardo genera una accoglienza che non sia semplicemente un “entra pure, tanto il paese è grande e difficilmente toccherà a me occuparmi dei casi tuoi”, ma qualcosa di più profondo, e quindi di più veramente significativo. A me sembra che di fronte al dramma dell’immigrazione la Chiesa dovrebbe provvedere a nuovi missionari, che sappiano le lingue degli immigrati e che vadano loro incontro, per sovvenire ai loro bisogni materiali ma anche spirituali. Solo santi missionari possono essere oggi, come furono in passato, capaci di permettere che l’immigrazione di popoli diventi incontro e non solamente scontro. Se questa è la missione dei credenti, non deve però esserci nessun sovrapposizione tra la carità dei singoli e il ruolo dello Stato.
A Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare, sostengono sempre, anche a sproposito, personalità di sinistra. Per cui la piantino di definire “anticristiani”, quando torna comodo, governi che semplicemente cercano di compiere il loro dovere, regolando un fenomeno, quello immigratorio, che di per sé è sempre drammatico, per chi arriva in una nuova terra, ma anche per chi accoglie. Il nemico più feroce dell’Europa, l’Attila di oggi: l’idea relativista e il mito multiculturale, cioè il principio secondo cui rinunciare a ciò che è per noi essenziale sia il presupposto per incontrare gli altri.

(di Francesco Agnoli- tratto da "Il Foglio" del 21/10/2010)